sabato 5 gennaio 2008

Si ode un cupo tintinnare di manette

Mentre perdura la crisi finanziaria ed in particolare la restrizione del credito ad imprese e singoli cittadini, un fenomeno giunto già a livelli di guardia in Gran Bretagna ma ormai visibile ad occhio nudo sia negli Stati Uniti che nell’Europa continentale, si sta facendo sempre più concreto che la scena si sposti sempre più dai mercati alle aule di tribunale o ai palazzi che ospitano le varie Authority operanti al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico.

E’ di venerdì scorso la notizia che la Financial Industry Regulatory Authority, un organismo che vigila sugli oltre 5 mila broker operanti negli Stati Uniti, ha inviato lo il 14 dicembre comunicazioni a 12 società che vendono obbligazioni garantite da mutui ipotecari, comunicazioni nelle quali vengono richieste informazioni molto dettagliate sulle modalità di vendita di questi prodotti della finanza strutturata e sull’effettuazione delle opportune analisi volte a stabilire la rispondenza di questi prodotti alle effettive esigenze del cliente.

Secondo fonti vicine all’indagine, la FINRA vuole stabilire se i broker hanno venduto alla loro clientela al dettaglio prodotti a rischio quando era già noto che il settore dei mutui subprime era in serie difficoltà, un’ipotesi che, ove confermata dall’esito delle indagini, porterebbe all’incriminazione dei responsabili, nonché rafforzerebbe la miriade di cause di risarcimento mosse da singoli investitori nei confronti delle stesse case di brokeraggio, alcune delle quali hanno nomi di tutto rilievo e corrono gravi rischi sia sul piano economico che sotto il profilo del cosiddetto rischio reputazionale, al netto degli anni di galera (e negli USA se ne prevedono tanti per questi reati) che potrebbero toccare ai top manager e ai dipendenti che si sono esposti personalmente.

Come ricordavo ieri, il tasso di litigiosità legata alle piccole e grandi vicende del mercato finanziario è giunto ormai a livelli elevatissimi, così come, anche per il clima elettorale ormai sempre più acceso negli USA, si moltiplicano le indagini e le proposte di legge miranti, le prime, ad accertare le responsabilità dei soggetti del mercato nella attuale crisi, mentre, le seconde, mirano a tutelare i mutuatari e gli investitori danneggiati e portare maggiore trasparenza nei rapporti tra banche e finanziarie da un lato e risparmiatori ed investitori dall’altro.

Ma, una volta tanto, in Italia siamo un passo più avanti, con le indagini della Procura di Milano su Italease giunte ormai ad un punto molto avanzato e con gli inquirenti alla caccia dei soldi che avrebbero fatto da contropartita di operazioni che vedevano la banca sempre in perdita, indagini in parte favorite dal know how acquisito dal PM Greco e compagni, scandagliando nelle precedenti e fantasiose soluzioni che erano state escogitate da Tanzi, Tonna e Co., grazie alla preziosa attività consulenziale e fattuale messa in capo da un pool di banche italiane e straniere che ancora rimpiangono di aver individuato in Parmalat e dintorni la gallina dalle uova d’oro.

Mentre nel caso di Italease siamo di fronte ad un banca pressoché decotta, circostanza ben testimoniata dalla riduzione a poco più di un sesto del valore dell’azione rispetto ai massimi toccati nella prima parte del 2007, molto più inquietante appare l’altro fascicolo aperto dallo stesso solerte pubblico ministero milanese nei confronti di Unicredit Group (anche se il riferimento delle indagini riguarda periodi precedenti all'acquisizione di Capitalia) per la vendita di derivati alle imprese, vendite che, stando alle denunce presentate da associazioni dei consumatori e dei risparmiatori, non erano finalizzate alla effettiva copertura dei rischi sostenuti dalle imprese clienti, quanto finalizzate a rimpinguare il conto economico del colosso creditizio milanese.

Ma in soccorso del Dr. Greco, in luogo delle un po’ pasticciate ricostruzioni dei consumeristi, sono venute, secondo quanto riporta il numero dell’Espresso in edicola, le dettagliate contestazioni che nell’agosto scorso hanno spinto la Consob a multare 34 amministratori di Unicredit Banca d’Impresa e Unicredit Banca Mobiliare, una schiera che comprendeva anche il capo d’impresa, Alessandro Profumo.

Con grande solerzia, il settimanale di proprietà di Carlo De Benedetti riporta interi stralci dell’istruttoria della Consob, dalla quale si desume che il Gruppo, nei due anni precedenti il 31 maggio 2005 (data coeva ad un’ispezione della Banca d’Italia di Fazio) il gruppo Unicredit ha venduto a “circa 12.700 piccole e medie imprese” prodotti finanziari “di tale sofisticazione ed elevata complessità” da risultare “inadatte alle stesse” aziende clienti, in quanto “prive geneticamente della finalizzazione dichiarata”, ossia “non utili a coprire i rischi finanziari di imprese industriali”.

Ma la Consob va molte oltre, dichiarando di aver trovato “al contrario evidenti tracce di un approccio di tipo opposto”, cioè derivati fabbricati per “esigenze di gestione della tesoreria” (sempre la Consob sostiene a riprova dell’unidirezionalità delle operazioni proposte che, ove fossero state chiuse alla data sopra indicata, avrebbero prodotto perdite per 1,97 miliardi di euro per i clienti e di appena 70 milioni per la banca).

Purtroppo per Profumo e compagni, nel seguito delle motivazioni relative alle multe comminate, l’Authority afferma che “indipendentemente dal segno e dal tipo di prodotto utilizzato, le posizioni assunte dai clienti risultavano già alla nascita gravate da pesanti perdite potenziali, che solo un andamento particolarmente favorevole avrebbe potuto invertire”, mentre il rischio è stato “amplificato da una massiccia rinegoziazione" che è risultata “particolarmente remunerativa per il gruppo in quanto ha consentito, in un mercato in via di saturazione, di incamerare ulteriori e ampi mark-up dalla clientela già acquisita”

Infine, la Consob quantifica anche e sostiene che con questi derivati (e con riferimento al solo biennio sopra indicato), il gruppo Unicredit ha “incamerato ricavi per 759 milioni nel 2003 e per 427 milioni nel 2004”, mentre i profitti netti realizzati su questi prodotti, sempre a livello di gruppo, hanno superato i 400 milioni di euro. Al proposito, Profumo ha dichiarato alla Stampa: “Non siamo la banca dei derivati: abbiamo solo il 24 per cento delle perdite potenziali per il settore delle imprese, che scende addirittura all’11 per cento per le istituzioni. Quel che resta, la maggioranza, lo ha qualcun altro”; infatti, la Banca d’Italia sta effettuando verifiche sulla stessa materia su quattro gruppi bancari, sulla cui identità non mi ripeto perché li ho citati in una puntata precedente.
Invito i lettori a rileggere l'intervista, concessa a Paola Pilati, capo redattore economico sempre de L'Espresso, dal vero golden boy della finanza italiana, Matteo Arpe, un'intervista titolata Arpe Diem che delineava quello che, a suo e da me condiviso parere, doveva essere il comportamento corretto del top manager bancario e quale, soprattutto, doveva essere il modello di vendita dei prodotti finanziari, un modello che si poneva all'opposto dell'originate to distribute tanto caro alla maggior parte dei banchieri suoi contemporanei in Italia e all'estero.

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