giovedì 21 febbraio 2008

BNL e Antonveneta, ovvero le reali cause dell'avvio della 3^ fase del processo di ristrutturazione del settore creditizio italiano


Per la seconda volta in un breve volgere di tempo, KKR Financial, vero e proprio braccio armato del colossale fondo di private equity Kohlberg-Kravis-Roberts per la raccoltà di liquidità, avrebbe chiesto ed ottenuto dai suoi creditori una dilazione del rimborso di una imprecisata quantità di miliardi di dollari che era stata raccolta attraverso l’emissione di Commercial Papers, mentre si è appreso che è in corso una serrata trattativa per una vera ristrutturazione dell’indebitamento della finanziaria, che fornirebbe una provvidenziale boccata di ossigeno alle locuste accomodante al piano sovrastante della piramide societaria.

Finita l’epoca del denaro facile e dell’allegro trasferimento ad altri soggetti dei rischi assunti in quelle scalate stellari che hanno fatto per anni la felicità della stampa specializzata, più o meno embedded, per le voraci locuste che di private hanno soltanto il nome il gioco si sta facendo veramente duro, come dimostra il caso di GMAC, la finanziaria un tempo di General Motors e incaricata di facilitare in ogni modo l’acquisto delle automobili e dei trucks prodotti dal colosso di Detroit, da qualche tempo passata sotto il controllo dell’altrettanto colossale fondo di private equity Cerberus, attualmente impegnato in una feroce ristrutturazione della controllata, con relativi tagli dei costi e del personale (950 licenziati solo nei giorni scorsi).

Che le locuste, i carry traders e le compagnie monoline sarebbero state le vittime della seconda ondata della tempesta perfetta è noto ai pochi lettori (da ieri raddopppiati nelle venti nazioni che, secondo le statistiche gentilmente offertemi da Google Analytics, ospitano utenti del bolg) sin dal 3 settembre dell’anno scorso, anche se va sottolineato il lag temporale di sei mesi tra la prima ondata, rappresentata dalla crisi di liquidità sul mercato interbancario del 9 agosto, e l’ondata attuale, mentre della terza non parlo per scaramanzia.

In un’alquanto feroce nota, Roddy Boyd, redattore tutt’altro che embedded della rivista Fortune, si diletta in una disamina molto tecnica delle disgrazie del Credit Suisse, dimostrando efficacemente che, al netto del buco da 2,85 miliardi di dollari dovuto ai soliti traders infedeli o perlomeno distratti, il colosso creditizio svizzero aveva attinto a piene mani dalle comode previsioni del FAS 159 statunitense che ha consentito di considerare come ricavi il minor valore, in termini di mark to market, sui titoli della finanza strutturale in portafoglio, ricavi che rappresentano il 16 per cento dei ricavi totali e che Moody’s ha già dichiarato ufficialmente di non prendere in considerazione in ragione della loro natura e di considerarli addirittura distorsivi, sul piano della comunicazione societaria, della concorrenza nei confronti di banche, come Deutsche Bank che utilizzano altri criteri contabili.

Ma la vera notizia di ieri è rappresentata dalla proposta provocatoria del titolare di un hedge fund, William Ackman, noto per essere impegnato in vendite massicce allo scoperto dei titoli di MBIA ed Ambac e che, forse - almeno secondo i commenti interessati dei vertici delle due società sotto tiro - per rendere le sue scommesse autorealizzantesi, ha ufficialmente proposto alla sempre più preoccupata autorità di vigilanza newyorkese sul settore assicurativo la scissione in due delle compagnie monoline, con una new company dedicata esclusivamente ai bonds tradizionali emessi da entità di natura pubblica e lasciando nella pancia della compagnia originaria le garanzie prestate alle emissioni dei titoli della finanza strutturata.

Lasciando gli americani ai loro non pochi guai ed a riflettere sulla inesorabilità della legge di causa-effetto, credo sia utile venire ai guai europei, che ho in parte anticipato parlando del Credit Suisse, con la notizia della guerra di parole scoppiata tra la Germania di Frau Merkel ed il Principato del Liechtenstein, un Paese lillipuziano che ospita poco meno di 50 mila fondazioni a fronte di 35 mila abitanti, una nazione stretta tra le non colossali Svizzera ed Austria e che viene accusata dagli occhiuti ispettori del fisco tedesco di ospitare capitali frutto di evasione, per un importo fino a 4 miliardi di euro, ascrivibili all’ex numero uno di Deutsche Post, Klaus Zumwinkel e ad altri 800 top manager e ricchi tedeschi che avrebbero scelto le accoglienti norme in vigore nel Principato rispetto ai porti non più sicuri di altri paradisi fiscali già finiti nella famigerata black list redatta da noiose agenzie sovranazionali.

Dopo una bordata di parole rivendicanti la sovranità nazionale di uno Stato grande quanto un quartiere di una metropoli italiana e dotato di forze di sicurezza inferiori a quelle ospitate nel quartiere medesimo, le autorità del principato si sono precipitate ad annunciare una pronta riforma della legge sulle fondazioni, venendo di fatto incontro alle richieste della Germania.

I dati sul quarto trimestre e sull’intero esercizio 2007 diffusi ieri da BNP Paribas, dati peraltro quasi perfettamente in linea con le anticipazioni diffuse dopo lo scandalo di Socgen, e quelli realtivi al vero e proprio tracollo della clientela di Antonveneta nel breve periodo di gestione olandese (almeno di quella palese, in quanto la banca era sotto l’influenza di ABN AMRO già prima di essere ufficialmente conquistata), mi costringono a venir meno ad una regola che mi ero imposta da solo sin dalla prima puntata del Diario della crisi finanziaria e che consisteva nel farmi influenzare il meno possibile dal ruolo di responsabile dell’ufficio studi della UILCA e, in quanto tale, impegnato, tra l’altro, da dieci anni nell’analisi dell’ancora incompleto processo di ristrutturazione del mercato finanziario italiano, da poco tempo entrato nella sua terza fase.

Ebbene, la conquista della Banca Nazionale del Lavoro da parte di BNP Paribas dopo lo stop doverosamente imposto dalle varie autorità preposte all’improbabile scalata di Unipol e la conquista di Antonveneta da parte della sua storica azionista ABN AMRO, nonostante le palese parzialità della Banca d'Italia allora governata da Antonio Fazio in favore della Banca Popolare Italiana di Fiorani e soci, sono davvero state le due vicende che hanno avviato questa terza fase, che ha visto il matrimonio lampo tra Intesa e San Paolo-IMI e quello, altrettanto fulmineo, tra Unicredit e Capitalia, entrambi finalizzati nei fatti all’esclusione di azionisti stranieri (Credit Agricole, Santander e ABN AMRO) sempre più impazienti e sempre meno contenti di avere pagato montagne di soldi per stare su uno strapuntino, mentre nel matrimonio tra Alessandro Profumo e Cesare Geronzi vi era anche il non troppo celato obiettivo di mettere alla porta il giovane e brillante CEO del gruppo romano, Matteo Arpe.

Il ritorno a caro prezzo di Antonveneta in mani italiane e la volontà implicita nelle prime mosse del Monte dei Paschi di Siena di riportare la banca padovana alla sua vocazione regionale, così come le autorevolissime (e finalmente giunte) smentite di BNP Paribas alla vera e propria campagna di stampa che prevedeva un disimpegno da quello che ha definito il suo secondo mercato domestico, smentite che essendo pronunciate in stereofonia dal CEO del colosso francese, Baudoin Prot, dal suo omologo in BNL, Jean Laurent Bonaffé, nonché dal presidente della banca di Via Veneto, Luigi Abete, non possono che essere considerate esaustive e segnaletiche della volontà di proseguire, al netto dei gravosi impegni finanziari che il Governo francese e lo stesso Sarkozy potrebbero richiedere a BNP come all’Agricole per un'eventuale sistemazione della partita Socgen, in un avventura italiana che certamente non era nota nelle sue reali difficoltà all’atto dell’acquisizione, non fosse altro per la semplice ragione che, come è noto, trattandosi di una contro OPA, era impossibile eseguire un’accurata due diligence, così come, peraltro, non era stata prevista, almeno in tempi così brevi, un'operazione come quella denominata Vivaldi, tacitamente approvata da quello stesso Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, che solo casualmente è volato martedì scorso dal suo omologo francese, Philippe Noyer, per un colloquio del quale non è dato, per l'ovvia riservatezza che caratterizza i colloqui tra gli esponenti delle banche centrali, conoscere i reali contenuti.