mercoledì 6 febbraio 2008

Ma chi sono i Pierpoint Morgan del 2008?


Quando sarà possibile passare dalla cronaca alla storia della seconda tempesta perfetta, la prima, lo ricordo è quella del 1907 che si dissolse alquanto in fretta grazie all’azione decisa di John Pierpoint Morgan, certamente la polverizzazione verificatasi ieri dell’ISM (The Institute of Supply’s Management Report) Service, l’indice del settore dei servizi a livello nazionale – che include attività di ristorazione, turismo e viaggi, attività creditizie, costruzioni e commercio al dettaglio e via discorrendo, un indice di importanza strategica che non solo si è portato per la prima volta in cinque anni in terreno negativo, passando da 54,4 in dicembre a 44,6 in gennaio, ma che, solo per una variazione metodologica dell’ultima ora ha evitato di mostrare la vera misura del tonfo, in quanto, è stato reso noto che, in base alla metodologia sin qui utilizzata, il calo è stato ancora più consistente: da 54,4 a 41,9.

Come ricordavo ieri, l’importanza crusciale di questo indicatore è legata al semplice fatto che il settore dei servizi, negli USA, riveste un’importanza di gran lunga superiore a quello del settore manifatturiero, in quanto la quota del PIL legata ai servizi in senso lato è nettamente superiore a quella legata, appunto alle attività manifatturiera che, a sua volta, supera largamente quella ascrivibile al settore agricolo, così come non credo sia superfluo ricordare che su questo progressivo surclassamento dei servizi sulla componente produttiva fisica, manifatturiera ed agricola, un ruolo fondamentale lo ha giocato il processo di finanziarizzazione spinta dell’economia statunitense e di quella globale e, in particolare, la fase che si è aperta nel 1985 e che incontra le prime serie difficoltà a partire dal 9 agosto 2007.

Il superamento verso il basso della fondamentale soglia 50 dell’indice (al di sopra della quale vi è espansione, al di sotto si è in recessione), che lo sia di 5,4 o di 8,1 punti è importante ma non fondamentale, dice a tutti noi che è finito il tempo delle previsioni sulla recessione prossima ventura, quella discussione stucchevole che vedeva i maggiori esperti esercitarsi in un gioco scarsamente comprensibile ai più sulle percentuali di probabilità di questo certamente non piacevole evento, per il semplice fatto che ci dice che siamo già nella recessione nella componente più importante e vitale dell’economia USA, mentre le altre due componenti arrancano già da molto tempo.

Quello che è ancora più importante è rappresentato dalla percezione diffusa di tutto questo da parte degli operatori economici di ogni dimensione, sia di quelli operanti negli USA, sia di quelli operanti in qualsiasi altra parte del mondo, e questa percezione è ben rappresentata dall’andamento delle borse statunitensi dal primo minuto dell’apertura di ieri al tanto sospirato momento in cui la campana di Wall Street ha decretato la fine del bagno di sangue, in realtà l’ennesimo in questo breve scorcio del 2008, portando le perdite dei tre indici borsistici statunitensi più importanti dai livelli già pesanti che avevo indicato ieri alle 19 a valori medi oscillanti intorno ai 3 punti percentuali, spingendo al contempo all’ennesimo rialzo quei titoli di stato che, secondo molti, sono da un po’ di tempo in una situazione di ipercomprato.

Il calo contemporaneo dei 10 indici settoriali nei quali sono suddivise le azioni statunitensi non deve fare passare in secondo piano la consapevolezza del fatto che, partendo da livelli medi di perdita rispetto ai massimi delle ultime 52 settimane che vanno dal 40 al 60 per cento e più, il settore finanziario statunitense ha vissuto ieri una delle giornate più nere da cinque mesi a questa parte, con cali vistosissimi per il comparto bancario, per quello finanziario, mentre la tenuta, tra le compagnie di assicurazione monoline che vedono le azioni dei due principali soggetti al poco più del 10 per cento del valore toccato all’inizio del 2007, di Ambac continua ad essere legata alle speranze, mi auguro fondate, che il miliardario che ha fatto fortuna comprando aziende sull’orlo del fallimento confermi il suo interesse a compiere l’ennesima, alquanto disperata, mossa azzardata.

La situazione è aggravata dal fatto che le banche centrali, in particolare la Federal Reserve, hanno già fatto quasi tutto quello che potevano fare, così come il governo statunitense e il Congresso, mentre non sembra vi sia, nell’intero panorama economico a stelle e strisce o globale, qualcuno che voglia fare mosse decisive per favorire una strategia cooperativa efficace per contrastare lo squagliamento dei valori attualmente in corso, anche se mi rendo conto che si tratta di una possibilità alquanto remota, alla luce del fatto che il vero problema alla base dell’attuale tempesta perfetta è rappresentato dalla dimensione mostruosa dei titoli della finanza strutturata, una dimensione che è francamente al di là di qualsivoglia programma di financial bailout e, forse soprattutto, perché lo spirito prevalente che anima i principali contendenti dell’agone economico è il tristemente noto to beggar my neighbour che raramente ha dato buoni frutti nella storia dell’umanità.

L’incremento esponenziale della litigiosità giudiziaria per le questioni attinenti i comportamenti personali o quelli commessi dalle istituzioni finanziarie in quanto tali certo non aiuta a rafforzare lo spirito cooperativo, così come i toni dell’accesissima battaglia per le presidenziali e per le politiche negli Stati Uniti d’America lasciano intravedere una decisa azione della politica ad urne scrutinate, un’azione forse volta non solo ad individuare e punire severamente i tanti colpevoli di questo disastro, ma anche, e me lo auguro sinceramente, a riformare radicalmente le regole di base che regolano quel Far West che è ormai diventato il mercato finanziario globale.

Così come credo che, se invece di agire a casaccio, stando perennemente dietro la curva dei rendimenti, i cow boys della Fed, Bernanke e soci, i dilettanti allo sbaraglio della Bank of England ( che pensano di aver trovato la soluzione ai loro problemi confermando come Governatore l'ineffabile King e facendo sapere che manterranno il segreto sulle richieste di salvataggio avanzate dalla banche), i templari della BCE impegnati nella loro lotta all’ultimo sangue contro l’inflazione e, per ultimi ma non ultimi, gli intrappolati della liquidità della Bank of Japan, decidessero finalmente di sedersi insieme attorno ad un tavolo in una stanza chiusa a chiave dall’esterno per uscirne solo dopo aver compreso le vere cause di questa crisi finanziaria ed aver individuato una strategia credibile, comprensibile ed applicabile, forse il mondo intero, per la prima volta da quando queste istituzioni non proprio amate e tantomeno trasparenti esistono, gliene sarà sinceramente grato.

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