sabato 23 febbraio 2008

Medici molto interessati al capezzale di Ambac


Un rumor giunto quando mancavano pochi minuti alla chiusura delle contrattazioni di venerdì 22 a Wall Street ha consentito un’impennata dei tre principali indici azionari statunitensi dal rosso semi intenso in cui erano immersi da parecchie ore all’area verde, anche se con valori relativamente modesti, e con una singolare coincidenza del Dow Jones 30 con il più ampio S&P 500, entrambi segnalanti un +0,79 per cento quasi miracoloso per gli operatori che si erano ormai rassegnati all’ennesima chiusura settimanale in perdita, come lo sono rispetto a quella ormai stabile prevalenza delle chiusure negative su quelle positive che si registra dall’inizio dell’anno.

Credo proprio che la normalmente alquanto severa Securities and Exchange Commission, equivalente blasonato della nostra relativamente recente Consob, farebbe bene a dare qualche segno di vita, di fronte a qualcosa di più di una voce sparsa ad arte da qualche anonimo operatore desideroso di portare a casa pane e companatico, in quanto il rumor proveniva dall’interno della grande società da settimane in difficoltà ed è stata ripresa da accurati dispacci di autorevoli agenzie di stampa statunitensi mentre le contrattazioni erano bellamente ancora in corso.

A mercati definitivamente chiusi, compreso il lungo after hours che, almeno stavolta, poco ha potuto aggiungere a quello che era accaduto negli ultimi e frenetici minuti di contrattazione sul mercato regolare, riferisco anche io che Ambac, la compagnia monoline che, a fine dicembre, era impegnata a garantire la bellezza di 524 degli oltre 2.400 miliardi di dollari USA di emissioni di bond più o meno strutturati garantiti dalle compagnie monoline, sarebbe in dirittura finale per concludere un importante deal con il gotha delle banche statunitensi e globali per “alzare” capitale riconoscibile come stabile, al fine di evitare che anche Moody’s e Standard & Poor’s seguano l’esempio fornito da Fitch’s, la società di rating che avuto il coraggio, l’ormai lontano 18 gennaio, data che sinora ha rappresentato per me solo il compleanno di mio fratello, il rating di Ambac da AAA ad AA, portando quello del suo braccio armato Ambac Financials ad una solitaria e miserevole A.

Credo proprio che il notevole lag temporale intercorso tra la coraggiosa, ma altrettanto doverosa, decisione dell’agenzia di rating statunitense e le sue due importanti sorelle non aiuti proprio a superare la drammatica lack of confidence che circonda ormai da tempo le decisioni di queste entità private chiamate a svolgere un ruolo semipubblico così importante, direi vitale, per fornire un accettabile grado di trasparenza a mercati che si presentano allo stato come oltremodo oscuri e che sono state pubblicamente messe sul banco degli imputati, in larga ed alquanto allegra compagnia, da buona parte dei decision makers politici dei principali paesi industrializzati e sono sotto stretta sorveglianza da parte delle sempre più preoccupate banche centrali che sono state chiamate, in aggiunta ai loro gravosi compiti, al ruolo non gradevole di spazzini del mercato, accogliendo, spesso in modo riservato, una considerevole fetta di quella altissima montagna di titoli della finanza strutturata, oramai divenuti meno appetibili dei tanto disprezzati junk bonds.

Non vorrei girare il classico coltello nella piaga, affermando che, se siamo giunti al punto in cui siamo, è proprio perché, per oltre un ventennio, gli attuali solerti accusatori delle società di rating, o, in molti casi, i loro predecessori, hanno allegramente girato la testa dall’altra parte rispetto ai sempre più evidenti guasti dell’imperversante modello originate to distribute.

D’altra parte, va detto per onestà che non vi è solo la stranezza del ritardo che al momento è di oltre un mese tra la decisione di una delle tre società di rating e le non decisioni delle altre due, in quanto non sfugge a nessuno che, grazie ad aumento di capitale di un misero miliardo di dollari, la prima delle compagnie monoline, quella MBIA che garantisce 679 miliardi di dollari di emissioni, mantiene ancora al momento la massima tra le pagelle ottenibili.

Non vorrei proprio che, dopo la montagna di parole sulla necessità di punire severamente il moral hazard e le altrettanto copiose lacrime di coccodrillo di economisti, banchieri centrali, governanti, commentatori e compagnia cantante, tornasse sul mercato e, più in particolare, sul mercato finanziario globale, la tristemente nota teoria del too big to fail, anche perché quella relativamente recente branca del sapere umano che è rappresentata dalla storia economica ha da tempo dimostrato, con dovizia di particolari e riferimenti alquanto precisi, che si tratta di un approccio che ha avuto effetti disastrosi e superiori a quelli che si sarebbero verificati seguendo, anche in tempi di crisi e tempeste più o meno perfette, il sano principio di eliminare dal mercato i soggetti incorsi in errori più o meno fatali, consentendo ad altri, e ve ne sono, di prendere il loro posto.

Stupisce, peraltro, che i vertici delle compagnie monoline si stiano avviando, quali pecore al macello, esattamente nella direzione indicata dal titolare di un importante hedge fund che pensa di diventare ancora più ricco giocando scopertamente al ribasso sulle azioni delle prime due companie monoline, MBIA ed Ambac, appunto, un finanziere che, in un dettagliato progetto sottoposto alla disperata autorità newyorkese incaricata di sorvegliare il settore assicurativo, ha proposto di splittare dalle compagnie il ramo che assicura le emissioni effettuate in modo assolutamente tradizionale da municipalità, contee (ricordate la Orange County?), stati federali e una pletora di organismi connessi a questi soggetti, lasciando in capo alle disastrate compagnie le garanzie relative all’enorme quantità di spazzatura dei titoli della finanza strutturata che le stesse, peraltro non da molti anni, hanno, in questo irretiti dalle allettanti sirene delle potentissime CIB delle altrettanto potenti banche basate in quasi tutti i paesi del mondo industrializzato, allegramente garantito.

Come ho avuto modo di sostenere nelle recenti puntate del Diario, si tratta con tutta evidenza di un progetto che, oltre a vedere, buon per lui, la autorealizzazione delle ardite scommesse di William Ackman, porterebbe, in tempi relativamente rapidi, al sicuro fallimento di quello che resterebbe di MBIA, Ambac e delle altre quattro principali compagnie monoline, così come di quel manipolo di altre compagnie minore rispetto alle quali vale il “de minimis non disputandum est”, come dicevano quegli imperialisti ante litteram dei romani.

Il week end non sarà impegnativo solo per Citigroup, UBS, Wachovia Bank, Barclays, BNP Paribas, Allianz (nella versione Dresdner Bank), Royal Bank of Scotland e Société Générale, impegnate nel perfezionamento dell’importante e delicato deal con Ambac, ma anche per la ricerca di una soluzione ai guai di una delle partecipanti ai lavori, quella Socgen che, almeno stando ai primi risultati dell’indagine interna, ha commesso delle leggerezze in vigilando che, pur non prefigurando complicità o reati, sono di per sé tali da vedere realizzato appieno il cosiddetto rischio reputazionale, cosa che il decisionista Sarkozy non può certo tollerare, abituato come è a “rendre la pareille”.