sabato 1 marzo 2008

It's going to be a deep deflation, stupid!


E’ proseguita ieri con estrema intensità l’ondata di vendite su tutti i mercati azionari e su tutti i fusi orari, ma la mia impressione è che il mercato non abbia ancora digerito l’effetto delle parole in libertà del presidente George W. Bush e delle esternazioni durate ben due giorni del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ormai definitivamente trasformatosi in Bernspan, una sorta di ibrido tra il mite professore che è stato per una vita ed il suo ineguagliabile Maestro, Alan Greenspan.

Tralascio ogni commento alle parole del prossimo pensionato ed attuale inquilino della casa Bianca, un epigono in sedicesimo di suoi predecessori che alluvionarono di vuote parole e falsi vaticini di ripresa le precedenti tempeste perfette o quel triste fenomeno che porta il nome di Grande Depressione, innescato da un crollo, come quello del 1929, che fu gestito da una masnada di autentici dilettanti allo sbaraglio, ma che ebbe il merito di ispirare un’opera fondamentale per la teoria economica, quale “La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” del mai troppo rimpianto John Maynard Keynes, con grave ritardo insignito del titolo di Lord Tilton.

Non posso, tuttavia, esimermi dal spendere qualche parola sulle due giornate di audizione rese da Bernspan all’apposita commissione senatoriale statunitense, in quanto ritengo che il nostro, ormai in preda ad un vero e proprio panic cutting, sia stato proso da una sorta di cupio dissolvi, affermando, di fronte ai senatori impietriti, che altre banche, dopo quelle entrate inserie difficoltà dopo la crisi di liquidità avviatasi il 9 agosto scorso, rischiano seriamente di chiudere i battenti, un’affermazione che, francamente, il suo predecessore non avrebbe mai fatto, mentre Paul Volker, forse l’unico vero banchiere centrale che gli Stati Uniti d’America abbiano mai avuto, le avrebbe fatte fallire, chiudendo energicamente i cordoni della borsa contro il moral hazard.

Risparmio ai miei quattro lettori la contabilità di questa seconda orribile giornata, un venerdì nero come pochi se ne sono visti nella storia, una seduta che ha visto tutto tingersi di un rosso cupo che non consentiva di scorgere alcunché potesse ricordare anche solo lontanamente quel verde che non è solo il colore dei prati e delle vallate, ma che in borsa rappresenta l’unica vera ragione di essere di quella pletora di operatori assatanati di guadagno facile, vivendo vite che potrebbero certamente essere impiegate in modo migliore.

Per quel che può valere, dico che non credo in alcun modo allo scenario invocato quasi universalmente dalla stampa specializzata, embedded o meno, e cioè quello della staglation, ossia di quella miscela micidiale di stagnazione dell’economia e di aumento significativo dei prezzi, in quanto si tratterebbe di uno scenario plausibile in un rallentamento fisiologico dell’economia dopo una lunga fase di espansione, ma il problema è che quella che ci troviamo a fronteggiare è una vera e propria tempesta perfetta, innescata peraltro da un ingolfamento nel processo di smaltimento dei titoli della finanza strutturata che rischia di mandare a gambe all’aria banche globali e non banchette di provincia.

In uno scenario siffatto, la staglation non ha possibilità di verificarsi, anche perché, se dovesse accadere anche solo un quinto di quelle che sono le mie previsioni che non ho nemmeno il coraggio di condividere, avremmo la più grande deflazione dopo quella verificatasi nel corso degli anni Trenta del secolo scorso, un crollo generalizzato dei prezzi che farebbe seguito ad un crollo senza precedenti dei valori mobiliari di ogni ordine e specie.

Sin dall’inizio di quest’avventura editoriale, oltre che sulle vere cause della crisi, invito i lettori a stare molto attenti ai tassi sui mercati interbancari ed ai cambi, assumendo, cioè, lo stesso angolo visuale dei banchieri centrali, almeno stando agli obbiettivi impliciti nelle loro un po’ scomposte ed azzardate mosse e dall’immenso volume di fuoco che le loro roventi batterie di cannoni stanno vomitando su questi due mercati, strategici per il mercato finanziario globale nel suo complesso.

Ebbene, le scommesse un po’ out of the money, che avevo azzardato nell’ultima puntata per il 2007, avrebbero, se fossero state formalizzate in contratti al tempo molto cheap, avrebbero guadagnato sensibilmente terreno, in quanto il dollaro sembra avere fretta di capitombolare verso le prime tappe del percorso da me indicate in modo azzardato ma altrettanto convinto, incurante del clima apparentemente pacioso delle festività natalizie, preparandosi ad assaltare la soglia degli 1,60 contro euro ed a testare verso il basso (siamo già a 103) l’importantissima soglia psicologica dei 100 yen, il tutto mandando letteralmente nelle peste l’alquanto incolpevole sterlina britannica.

Se esistono, e ne sono oltremodo sicuro, vaste schiere di carry traders ancora con il cerino acceso in mano e che hanno allegramente utilizzato il micidiale effetto leva, credo proprio che, alla luce dei movimenti sui crosses principali che si sono già verificati, assisteremo a botti come se ne vedono solitamente solo a capodanno, con rischi immani per le controparti bancarie ed assicurative di questi un po’ spregiudicati soggetti, di fatto non sottoposti direttamente alla vigilanza di alcuno, per uno tenti e colpevoli buchi delle leggi e dei regolamenti, si fa ovviamente per dire, vigenti in quel grande casinò all’aperto rappresentato dal mercato finanziario globale.

Ero un giovane floor economist alle prime armi, quando il mio primo direttore finanza, dall’alto dei suoi quasi due metri di altezza e con voce alquanto stentorea, mi mise a parte di una verità nota ai navigati addetti ai lavori e che consisteva nel fatto che se il dollaro fosse, ad esempio, crollato da 1,50 ad 1,40 marchi tedeschi, gli operatori della sala, dopo una breve sorpresa, avrebbero iniziato ad operare come se il cross fosse sempre stato a quei livelli, cancellando in un istante dalla loro mente ciò che era stato normale sino a qualche momento prima.

Pur essendo troppo inesperto per comprendere il reale senso di quella evidente verità che ho avuto modo di osservare direttamente negli anni successivi, compresi che l’approccio di Keynes alle vicende economiche ed il suo, originale per i suoi tempi, sottolineare l’importanza di sentimenti molto umani quali l’avidità, la stupidità e, the last bur not the least, la paura nel determinare quelle milioni di scelte al minuto che, messe assieme, determinano gli andamenti degli indici, dei prezzi e di tutto quanto sta ad indicare l’equilibrio tra domanda ed offerta, consentendo così di comprendere perché lo stesso equilibrio poteva benissimo non essere perfetto e coesistere alquanto allegramente con una sotto occupazione, anche significativa, dei principali fattori produttivi.