giovedì 27 marzo 2008

Le Big Five sotto la lente della Fed


La considerazione fatta da Henry Paulson, l’ex numero uno di Goldman Sachs e pro tempore ministro del Tesoro USA, davanti ad una sempre più inquieta commissione del Congresso statunitense, in materia di estensione anche alle investment banks dei criteri di vigilanza tradizionalmente applicati alle banche commerciali ha gettato nel panico gli azionisti delle Big Five, ormai ridotte, dopo il botto di Bear Stearns, a sole quattro, determinando una vera pioggia di vendite che hanno determinato flessioni delle relative quotazioni multiple di quelle segnate dai tre principali listini statunitensi.

Anche se si tratta di una considerazione scontata e resa necessaria dalla costante applicazione da parte delle investment banks dello possibilità offerte dallo speciale sportello aperto dalla Federal Reserve in favore delle banche statunitensi di ogni ordine e grado per consentire loro lo smaltimento temporaneo delle rispettive colline o montagne di titoli della finanza strutturata, non vi è dubbio che, per queste CIB delle CIB, la sola idea di dover sottostare alle normali regole di vigilanza applicate, con standards e sistemi solo leggermente diversi, alle comuni banche di tutto il mondo rappresenta un pericolo che fa tremare i polsi dello stuolo di Chairman, CEO, CFO e COO che le popolano.

Come sarà, infatti, possibile giustificare ai vigilantes dell’ormai tremebondo Bernspan i rispettivi livelli di leverage che le affliggono, con rapporti che vanno da 1 a 26 sino ad 1 a 32,6 (il rapporto esistente tra il patrimonio e l’indebitamento), quello stesso squilibrio strutturale che spazzato via, in una sola ma lunghissima notte, dal mercato la storica ed un tempo prestigiosa entità conosciuta come Bear Stearns, quella, tra le Big Five, che più aveva scherzato con il fuoco delle invenzioni sempre più astruse e complesse degli apprendisti stregoni della sua fabbrica prodotto, invenzioni materializzatesi in titoli che sono molto diffusi e tuttora nei portafogli degli investitori istituzionali e dei comuni mortali operanti sul mercato finanziario globale.

Sarà un caso, ma proprio alla vigilia di questo doveroso warning di Paulson, la sua ex banca di appartenenza, Goldman appunto, ha diffuso nuove ed alquanto terrificanti stime sulle perdite prossime venture a livello statunitense ed a livello globale, giungendo all’astronomica cifra di 460 miliardi di dollari per le banche USA di ogni ordine e specie e, addirittura a 1.200 miliardi di dollari a livello globale, cifre che, almeno a livello planetario, superano di 12 volte la prima stima fatta a caldo dagli esperti del Fondo Monetario Internazionale e di 6 volte quella avanzata, sempre dal FMI, qualche mese più tardi, mentre ricordo che, almeno sino ad ora, il più catastrofista dei catastrofisti veniva irriso, tra gli sghignazzi di esperti ed accademici, per aver osato dire che si poteva anche arrivare a 1.000 miliardi di dollari di perdite a livello mondiale.

Poiché lo scopo del Diario della crisi finanziaria è anche quello di svolgere un’attività di prevenzione rispetto alle manipolazioni della stampa e dei media in generale un po’ embedded alle logiche del capitale finanziario e del potere politico, vorrei sottolineare che tale ferale notizia, proveniente peraltro da una delle maggiori indiziate di aver favorito l’avvento della tempesta perfetta, l’ho vista riportata solo da Il Sole 24 Ore di ieri che, peraltro, le dedica un piccolo riquadro di sette righe posto a fianco di un’intervista su due colonne ad uno dei maggiori esponenti della sempre più nota ed agguerrita società di consulenza Accenture, Noel Gordon, dal titolo francamente esilarante: “Alla fine saranno più i vincitori che i perdenti”.

Come ho avuto modo di ricordare più volte nel Diario e nell'altrettanto citato intervento che ho tenuto al recente convegno sulla crisi dei mercati (disponibile nella sezione video del sito http://www.flipnews.org/ ), pur se nulla di quanto proviene dalle investment banks e dalle CIB va preso per oro colato, in base alla semplice formuletta di Jan Hatzius, Chief Economist per i soli Stati Uniti di Goldman Sachs, il taglio prevedibile dei finanziamenti bancari all’economia si collocherebbe a 4.600 miliardi per le banche basate negli USA ed a 12.000 miliardi a livello complessivo, non ipotizzando, mentre è quello che sta purtroppo accadendo, che le banche non vadano oltre questa misura prudenziale o considerando questa over reaction a pareggio degli aumenti di capitale già avvenuti e di quelli prossimi venturi.

Alla luce di queste cifre provenienti dai bene informati analisti e previsori della preveggente Goldman Sachs, sarà più facile capire perché ho dedicato, nella puntata di ieri, l’apertura alla notizia delle assunzioni in massa decise dalla Federal Deposit Insurance Corp, l’organismo federale incaricato di garantire, ovviamente entro i limiti stabiliti dalla legge, i depositi dei risparmiatori statunitensi, assunzioni volte ad incrementare del 60 per cento il numero degli addetti alla specifica sezione che deve “maneggiare” i fallimenti bancari, una sezione che deve far fronte al netto calo dell’organico intervenuto dopo che il super lavoro legato alla ormai lontana crisi delle casse di risparmio degli anni Novanta, quando, nei primi due anni della decade, fallirono ben 502 banche statunitensi, vicenda che era divenuta ormai un pallido ricordo che riguardava solo i più anziani tra gli addetti ai lavori della FDIC.

Secondo l’ottimamente informato Wall Street Journal, 49 hedge funds con un patrimonio complessivo che sfiora i 19 miliardi di dollari hanno chiuso i battenti nel 2007.

Se proprio volete, potrei anche aggiungere che, sempre ieri, vi è stato l’ennesimo tracollo nelle vendite di nuove case, con il correlativo forte calo del prezzo mediano che, lo ricordo, si pone ormai a 195 mila dollari per le case esistenti ed a 244 mila dollari per quelle di nuova costruzione (prezzi da vero saldo, anche se accompagnati da solide previsioni di ulteriori cali, in quanto la maggior parte degli esperti statunitensi del settore prevede che il pavimento delle quotazioni sia ancora lontano), mentre non vi è stato il coralmente previsto rimbalzo degli ordinativi industriali dopo il tonfo di gennaio (-4,6 per cento), in quanto, anche in febbraio, gli ordini si sono ostinati a calare dell’1,8 per cento, con tonfi settoriali che viaggiano ormai a due cifre.

Sarà per l’azione di Jean Claude Trichet, sarebbe meglio parlare di non azione quasi in senso Zen, e del suo un po’ neotemplare Board, ma le cose, per l’economia della Germania e, pur tra sensibili e significative differenze, dell’intera Europa, stanno andando proprio in un’altra direzione, come è stato ben testimoniato dalla crescita del cruciale indice IFO tedesco che, contro le previsioni degli esperti, si ostina a crescere mese dopo mese ed è ormai al di sopra del livello di 105.

Non credo sia il caso di sottolineare nuovamente la diversa credibilità che il mercato attribuisce, con sempre maggiore convinzione all’operato (o non operato) della BCE, rispetto al crescente scetticismo, che in qualche caso diviene aperto discredito, per le mosse di Bernspan e complici o per le esilaranti performance della Bank of England di King, per non parlare di quelle della FSA o del Cancelliere dello Scacchiere di Sua Maestà britannica.