mercoledì 30 aprile 2008

Continua il meltdown immobiliare statunitense


La brutta trimestrale di Countrywide, ormai generalmente considerata accasata, a prezzi di vero saldo, con l’acquirente Bank of America, non ha turbato più di tanto i sonni dei suoi azionisti che, a meno di sorprese dalle pubbliche audizioni che la Federal Reserve sta tenendo proprio in questi giorni sull’offerta micragnosa di Bofa e sui suoi effetti sugli assetti concorrenziali del mercato del mortgage, sanno già il prezzo che le loro azioni avranno al termine del laborioso ed un po’ complesso iter autorizzativo.

L’ennesima trimestrale negativa di una delle molteplici entità del settore del credito statunitense è, peraltro, caduta mentre notizie negative provenienti da quel vero e proprio meltdown che è diventato il settore immobiliare USA venivano giù come se piovesse, con il vero e proprio balzo in avanti delle procedure di esproprio delle case che, nel primo trimestre di quest’anno, sono cresciute del 112 per cento rispetto allo stesso periodo del 2007, mentre il prezzo medio delle abitazioni è crollato di poco meno del 13 per cento su base annua, un calo record che fa seguito ad altre cinque variazioni mensili consecutive e che ha riguardato tutte le venti aree metropolitane considerate, con la solitaria e lodevole eccezione della modesta variazione positiva segnalata con riferimento a Charlotte nel North Carolina.

Pur non avendo assolutamente l’intenzione di girare il classico coltello nell’ancora più classica ferita, non posso esimermi dal segnalare che ieri è stato reso noto l’incremento delle case vuote negli Stati Uniti d’America, ormai giunte al 2,8 per cento dell’intero parco abitativo, così come mi vedo costretto a segnalare che gli analisti del settore si dichiarano convinti che siamo ancora lungi dall’avere toccato il fondo del barile.

In mezzo a tante brutte notizie, va segnalato lo sforzo convinto che i manager di Bank of America dichiarano di stare profondendo per venire incontro fattivamente ad un numero considerevole di mutuatari in difficoltà, anche se non si tratta di un gesto del tutto disinteressato, anche alla luce delle cifre esorbitanti necessarie per ottenere un esproprio e le somme decrescenti che si realizzano nelle non proprio affollate aste nelle quali le abitazioni precedentemente pignorate vengono messe all’incanto.

Mentre ci si è ormai abituati al bollettino di guerra proveniente dal sempre più caldo fronte abitativo, non si finisce di restare impressionati dal progressivo sprofondare dell’indice che misura la fiducia dei consumatori, non perché non ne abbiano sufficienti ragioni, ma perché sprofondare ai livelli più bassi degli ultimi cinque anni nel pieno di una incandescente campagna elettorale presidenziale rappresenta, di per sé, un vero e proprio record.

Mentre stanno per ridursi a poco più di sessanta i giorni lasciati alla banche per dire la verità con le buone da Draghi, Paulson & Company (anche se non è molto chiaro cosa accadrà nel caso si ostinino a non farlo), devo riconoscere che una certa impennata nei disvelamenti e nelle sempre più pressanti richieste di denaro fresco al mercato si sta invero registrando sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, segno inequivocabile che nell’ultima cena a porte chiuse riservata ai poco felici banchieri globali qualche anticipazione sul trattamento loro riservato nella seconda fase del piano i banchieri centrali ed i ministri economici del G7 devono pur avergliela detta e, almeno così suppongo, non devono essere state accompagnate da parole affettuose da parte di persone che, dopo tutto, sono spesso dei loro ex colleghi.

Quello che non cessa, invece, di stupirmi è il silenzio veramente assordante proveniente dai vertici dei fondi pensione e dei fondi di investimenti statunitensi ed europei, quelle entità che, almeno secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale diffuse alla vigilia del vertice finanziario del G7, sarebbero chiamate ad assorbire perdite finali ammontanti a poco meno di 700 miliardi di dollari, mentre le banche di ogni ordine e rango dovrebbero cavarsela con qualcosa di meno di 300 miliardi di dollari, soltanto qualche decina di dollari in più di quelli che sono già stati contabilizzati nei bilanci già presentati.

Rinnovo la mia personale soddisfazione per la scarsa diffusione di questi due tipi di investitori istituzionali nel nostro, stavolta per fortuna, arretrato Paese, popolato da risparmiatori dotati di una ragionevole dose di atavica prudenza e che continuano con ostinazione a preferire il lento ma sicuro progredire del loro trattamento di fine rapporto alle lusinghe ed alle sirene provenienti da entità finanziarie non proprio note per le loro performance, prestazioni di medio lungo periodo che definire modeste rappresenta un vero e proprio eufemismo.

Mentre ancora non sono sufficientemente noti gli effetti delle norme contabili statunitensi sui conti economici di banche e finanziarie, anche perché continua a latitare la severa Moody’s che pure aveva solennemente promesso di fare le pulci ai bilanci legalmente taroccati dalla considerazione delle perdite derivanti dalle svalutazioni operate sulla montagna di titoli della finanza strutturata presenti on and off balance sheet delle suddette entità operanti nel gigantesco mercato finanziario statunitense, l’onda dei licenziamenti di dipendenti di ogni ordine e grado inizia a passare l’Oceano, colpendo, almeno per ora, le isole britanniche e la extracomunitaria Confederazione Elvetica ed a lambire i paradisi fiscali già alle prese con i temibili servizi fiscali della Germania di una Angela Merkel che, ogni giorno che passa, sembra sempre più intenzionata ad oscurare la fama dei finora imbattuti esattori marchigiani del Papa Re.

Minori motivi di ansietà circondano, invece, il meeting di domani del Federal Market Open Committee, chiamato a porsi ancora una volta behind the market, elargendo quel quartino di punto sui Fed Funds e sul tasso ufficiale di sconto, che dovrebbero portarsi, rispettivamente, al 2 ed al 2,5 per cento, anche perché le donne e gli uomini chiamati a prendere questa decisione sembrano, con ostinazione degna di miglior causa, non volersi proprio rendere conto del fatto che l’inflazione viaggia ormai da tempo a tassi annui di crescita oscillanti intorno al 4 per cento, mentre non sembra mancare molto al momento nel quale anche la benzina, come già il gasolio, si attesterà al di sopra della soglia psicologica dei 4 dollari al gallone.

Apparentemente dimentico dei dolori e delle sofferenze procurategli dalla stesura del rapporto semifinale del Financial Stability Forum che dovrebbe vedere la ratifica dei sette grandi nel corso del previsto meeting di luglio, così come si mostra imperturbabile rispetto alla soluzione che il Governo prossimo venturo vorrà adottare sul trasferimento delle quote possedute dalle banche nella sua Banca d’Italia, Mario Draghi si sta occupando a tempo pieno degli sviluppi della sistemazione del settore creditizio italiano (vedi, al proposito, le puntate apparse sabato e domenica scorsi), operazione che si intreccia strettamente con la sua opera di accompagnamento del vivace movimento che punta ad un maggior rispetto di quegli azionisti di minoranza che, lo ripeto per i distratti, in non pochi casi rappresentano la larga maggioranza degli azionisti di non poche e certo non secondarie società per azioni.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press www.flipnews.org