domenica 25 maggio 2008

Il ruggito del Leone di Omaha contro Paulson, Bernspan ed i venditori di false speranze

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Quando, oltre due mesi orsono, ho indicato in Warren Bufett ed in George Soros le mie due guide, quasi due stelle polari utili per orientarmi tra gli alti marosi della attuale tempesta perfetta, non lo dicevo a caso, in quanto, pur nella diversità delle origini, dei caratteri, degli stili di vita e dei modi di operare nel mondo dell’economia e della finanza, essi rappresentano due approcci analitici ed operativi sostanzialmente basati su una profonda conoscenza della natura umana, su un grande buon senso e su quel misto di fiuto e fortuna senza il quale non si va davvero lontano nel mercato finanziario globale.

Quando li ho scelti, nessuno dei due si era ancora pronunciato sulla natura, le cause e le prospettive della crisi finanziaria già in corso da mesi, o, se lo avevano fatto, le loro dichiarazioni mi erano sfuggite, sommerso come ero ed eravamo tutti da un vero e proprio profluvio di dichiarazioni, promesse e minacce provenienti dai governi e dalle banche centrali dei paesi maggiormente industrializzati, dagli alti lai e dai lamenti degli un tempo invincibili capi delle Investment Banks e delle banche più o meno globali, quasi tutte aventi ad oggetto le recriminazioni per aver deciso di fidarsi di mutuatari al di sotto di ogni sospetto e per avere preso per buone le garanzie offerte dalle banche specializzate che avevano mollato loro mutui per centinaia di miliardi di dollari.

Sin dalla prima puntata del Diario della crisi finanziaria, ho cercato di delineare, senza pregiudizi e senza interessi di parte, le vere cause di quanto stava accadendo e, per fare questo, ho utilizzato lo schema analitico proprio di John Maynard Keynes, facendo riferimento più che alle pregevoli opera teoriche di Lord Milton ai suoi attualissimi libelli polemici, in particolare quel “Le conseguenze economiche della pace”, scritto dopo le sue polemiche dimissioni dalla delegazione Britannica alla Conferenza di pace di Parigi, un altissimo consesso che, invece di gettare le basi per la pace in Europa, si adoperò per umiliare la Germania sconfitta e porre delle riparazioni chiaramente insostenibili che alimentarono il rancore tedesco e contribuirono al successo del partito nazionalsocialista di Hitler e il conseguente secondo conflitto mondiale.

La tenacia ed il coraggio con il quale Buffett e Soros, quasi dei novelli Chomsky, stanno confutando le tesi di Henry Paulson, Bernspan, Fox e compagnia cantante sono meritevoli di ogni considerazione da parte di coloro che hanno deciso di pensare con la loro testa e di non gettare il proprio cervello all’ammasso, anche se ammetto che è difficile resistere alla più grande campagna di disinformazione proveniente dalla quasi generalità dei media, dalla maggior parte degli economisti e degli esperti del mercato, dalle veline delle Big Five o delle maggiori banche globali, tutti a spiegare che la crisi è ormai alle spalle, che il peggio è comunque passato e che è ormai ora per gli investitori piccoli, medi e grandi di tornare a fare il loro dovere, consentendo così un rapido smaltimento delle decine di migliaia di miliardi di titoli della finanza strutturata che si ostinano a restare al di sopra o al di sotto delle linee di bilancio o nelle ormai stracolme discariche a cielo aperto gestite dalla Federal Reserve.

Per onestà intellettuale devo riconoscere che, dopo aver fatto il possibile e l’impossibile per aiutare le banche ad uscire dalla loro pessima situazione, il professore di Princeton prestato alla politica monetaria dà segno di volere tornare decisamente nei suoi panni, piuttosto che continuare ad essere una sorta di replicante di quel Alan Greenspan che, per sfortuna dell’America e degli americani, ha occupato per ben diciannove anni la più alta poltrona della Fed ed ha favorito in ogni modo la creazione, o l’ulteriore sviluppo, delle numerose bolle speculative che sono, al momento, soltanto in parte scoppiate.

Non si tratta soltanto dell’allinearsi sempre più vistoso delle minute della Fed o dei contenuti del Beige Book alle posizioni dei due membri dissenzienti del FOMC, ma del tenore minacciosamente rialzista in materia di tassi di interesse delle stesse posizioni del numero uno della ormai esausta banca centrale statunitense, rialzi che non pochi osservatori indicano già per la seconda metà dell’anno in corso, prospettiva che sta letteralmente gettando nel panico tutti coloro che speravano di lenire gli effetti della crisi con l’ampliamento della forbice tra tassi attivi e passivi, nonché grazie allo smercio temporaneo a basso costo della loro monnezza più o meno strutturata.

Bernspan sta dunque lentamente tornando ad essere Ben Bernanke, quel mite e saggio studioso delle crisi finanziarie che tutti eravamo abituati a leggere e a rispettare, un docente molto amato dai suoi studenti e dai suoi colleghi del prestigioso ateneo statunitense e che mai avrebbe pensato, accettando l’alto incarico, di trovarsi a gestire questo accidenti di marasma che rischia di mandare alle ortiche non questo modello di globalizzazione e di finanziarizzazione, ma la globalizzazione e la finanziarizzazione tout court, come dicono certamente meglio di me Nicolas Sarkozy ed il presidente della Germania, due persone che più diverse tra loro è difficile trovarle nell’universo mondo, ma accomunate dal giudizio più che pessimo per i guasti prodotti dalla deregolamentazione spinta in corso da oltre un quarto di secolo.

Non posso non notare con piacere che anche quello che Beppe Grillo definisce il tronchetto dell’infelicità, al secolo Marco Tronchetti Provera, sia giunto alla conclusione che ci vorrebbe proprio una nuova Bretton Woods, cosa che sostengo sin dall’inizio di questa avventura editoriale, ma che temo dovrebbe avere caratteristiche e presentare soluzioni diametralmente opposte a quelle cui pensa Provera e, soprattutto, rispetto a quelle che tanto amareggiarono il mai troppo compianto Keynes.

D’altra parte, restando in fiduciosa attesa per quello che scaturirà dalla riunione dei sette grandi prevista per metà luglio in terra nipponica, credo proprio che quanto è avvenuto nella scorsa settimana ha messo una pietra tombale sulle speranze e le promesse di pronta guarigione pronunciate un po’ troppo avventatamente da importanti esponenti governativi, da banchieri disperati più delle omonime casalinghe e da tanti giornalisti adusi da lunga pezza ad essere più realisti del re.

Non bastassero le cupe e severe profezie emesse con un ruggito dal Leone di Omaha per la delizia dei lettori di una rivista tedesca, quello che è accaduto nella passata ottava con l’aumento di capitale triplicato rispetto all’annuncio da parte del colosso assicurativo statunitense AIG, le cupe previsioni sui conti del secondo trimestre per la quasi generalità dei principali attori del mercato finanziario, i record a raffica del petrolio e delle altre materie prime, l’andamento della cosiddetta inflazione core negli USA ormai stabilmente posta a tassi annui equivalenti al doppio dei tassi sui Fed Funds, la liquefazione delle quotazioni delle azioni delle monoliner e l’ulteriore appesantimento di quelle di banche, compagnie di assicurazione e di gran parte delle corporations statunitensi per sede ma globali per definizione.


Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/