venerdì 25 luglio 2008

E' già fallita la furbata di Effe O Ixs?


Come usano dire gli operatori più smaliziati, “buy the rumor sell the news” ed è esattamente quanto sta avvenendo in relazione alla più che prevedibile caduta del più volte minacciato veto presidenziale nei confronti del disegno di legge parlamentare, appena passato a stragrande maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, per aiutare un numero non marginale di mutuatari ad evitare l’apertura della procedura denominata foreclosure, una procedura che, nella maggior parte dei casi, si conclude tristemente con la messa all’asta della casa da parte della banca o della finanziaria che ha concesso il mutuo e che colpisce famiglie che spesso, oltre la casa, hanno perso almeno uno dei lavori di qualcuno dei componenti del nucleo familiare.

La difesa delle diciannove maggiori entità del mercato finanziario statunitense, anche se nel novero sono inclusi alcuni dei maggiori colossi creditizi europei, da parte delle nuove e molto più restrittive regole imposte dalla Securities and Exchange Commission, guidata dall’improvvisamente risvegliatosi Effe O Ixs mostra già i limiti intrinseci in ogni regola che venga imposta mentre la partita è già, e da molto tempo, iniziata, una misura che, lo ricordo nuovamente, non è mai stata applicata quando il mercato andava in ben altra direzione e denotava segni inequivocabili di esuberanza irrazionale che hanno portato più volte dritti, dritti verso la creazione delle numerose bolle speculative poi inevitabilmente scoppiate nel 1987, nel 1998 e, con effetti veramente devastanti, nel 2000-2001, quando il Nasdaq sprofondò in poco tempo dal massimo storico di 5.200 punti a poco più di 1.300 punti, perdendo così i tre quarti del suo valore massimo.

Se qualcuno seriamente pensava di tagliare le lunghe unghie di David Einhorn o di quel folto gruppo di miliardari in dollari che ne seguono da molti mesi le mosse dichiaratamente ribassiste nei confronti di un numero imprecisato, ma sufficientemente ampio, di Investment Banks, banche più o meno globali, delle tecnicamente più che fallite Fannie Mae e Freddie Mac, ebbene, questo qualcuno dimostra una profonda ignoranza dei meccanismi del mercato, un’ignoranza almeno pari a quella dimostrata dalle convulse e scomposte mosse dei banchieri centrali a difesa di un dollaro che, ove si ragionasse sulla base dei fondamentali, potrebbe tranquillamente veleggiare verso un cambio di 2 per un euro, così come potrebbe sfondare verso il basso il livello dei 100 yen per dollaro.

Non ho scelto del tutto a caso di interrompere per ben cinque puntate il resoconto di un mercato finanziario globale letteralmente drogato dalle manovre delle banche centrali e dalle decisioni veramente asimmetriche della Sec, volgendo lo sguardo a quanto sta avvenendo nel sistema bancario italiano (termine che abbandonerò volentieri quando le banche che ne sono grande parte, così come le compagnie di assicurazione mostreranno, nei fatti e non a chiacchiere, di adottare comportanti ispirati alle best practices internazionali), un sistema nel quale la terza fase del processo di ristrutturazione, basata prevalentemente su di una conventio ad excludendum pregiudiziale nei confronti delle banche straniere, incluse quelle basate nell’area dell’euro o negli altri paesi dell’Unione europea, sembra giungere agli sgoccioli, anche grazie alla manovra a tenaglia attuata da Draghi, Catricalà e Tremonti, nonché al maggiore attivismo della Consob e, almeno negli ultimi tempi, della stessa Isvap che per lungo tempo è sembrata troppo attenta alle esigenze dell’associazione di categoria delle compagnie di assicurazione.

Tale mia scelta editoriale è stata dettata essenzialmente da una valutazione che vedeva la totale inutilità di mettere a dura prova la pazienza dei miei lettori in relazione a movimenti dei listini azionari statunitensi, con particolare riferimento alle diciannove entità poste sotto protezione dallo sforzo congiunto di Fed, Sec e di quel ministro del Tesoro statunitense di cui tutto si può pensare meno che sia in grado di dimenticare gli interessi della Ditta per la quale ha lavorato per buona parte della sua vita, quella Goldman Sachs che corre seriamente il rischio di finire sul banco degli imputati per le sue responsabilità in merito all’avvio della tempesta perfetta, ma soprattutto per avere svolto un ruolo fondamentale nella creazione di quella vera e propria montagna di titoli della finanza strutturata che sta rischiando di rendere del tutto insolubile la più grave crisi finanziaria dalla fine del secondo conflitto mondiale.

A costo di risultare noioso, continuo a ripetere che, in assenza di una rilevantissima contrazione del valore nominale di questi titoli, l’introduzione di regole molto severe per il domani e l’accertamento senza reticenze e timori delle responsabilità individuali ed aziendali che ci hanno portati sull’orlo del burrone o, come dicono i catastrofismi, ben oltre l’ultimo centimetro che separa la terra dal vuoto, anche se non posso non prendere atto che anche gli economisti di chiara fama che pensavano di risolvere tutto con una riedizione di una sorta di Piano Brady hanno, alla fine, dovuto ammettere che l’ordine dei problemi è come minimo decine e decine di volte superiore a quello che fu forse il più grande sforzo dei paesi maggiormente sviluppati per venire incontro all’insostenibile indebitamento dei paesi in via di sviluppo.

Desta una certa impressione assistere a flessioni che si aggirano intorno al 20 per cento per Fannie Mae e Freddie Mac, pur restando i volumi largamente inferiori a quelli che si registravano nelle settimane passate per la presenza delle micidiali bordate di Einhorn e compagni, segno inequivocabile del fatto che a non credere più nelle possibilità di una soluzione in bonis per le due entità semipubbliche sono gli stessi disperati azionisti, che sanno benissimo che, in caso di salvataggio, la prima cosa a polverizzarsi è proprio il valore delle azioni che si sono ostinati a mantenere anche quando era ormai chiaro che difficilmente le autorità monetarie avrebbero potuto estendere la garanzia federale ai 5,200 miliardi di titoli emessi da Fannie Mae e Freddie Mac, per la semplice ragione che il limite costituzionale a 9 mila miliardi di dollari, livello a cui il debito pubblico statunitense è oramai vicinissimo, non consente, in un anno che vede una feroce competizione elettorale, essere travalicato do oltre il cinquanta per cento.

Né aiuta il depresso clima psicologico degli operatori e degli investitori lo scenario disegnato dall’ultima edizione del Beige Book della Federal Reserve e il moltiplicarsi delle dichiarazioni di membri del Federal Open Market Committee che ritengono non più dilazionabile l’avvio di una stretta monetaria, per la semplicissima ragione che non è pensabile protrarre oltre un livello dei tassi a brevissimo negativi, ove espressi in termini reali, per 300 punti base.

Come avevo più volte sostenuto, la nuova enorme bolla speculativa verificatasi, via derivati, sul prezzo del petrolio e delle altre materie prime, derrate alimentari tragicamente incluse, sta sgonfiandosi rapidamente, con un calo di 20 dollari al barile in un numero tutto sommato limitato di sedute, il che apre scenari alquanto catastrofici per quella pletora di investitori istituzionali, inclusi un buon numero di fondi pensione, che aveva deciso di rifarsi di almeno una parte dei circa mille miliardi di dollari di perdite che, alla fine della fiera, dovrebbero affliggerle, contro i “soli” 400 miliardi attribuibili alle istituzioni finanziarie, ma quello che è grave è che nessuno ha ancora imposto un innalzamento dei margini di garanzia dal misero 5 per cento attualmente previsto.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.