mercoledì 9 luglio 2008

Riuscirà il povero Bernspan a tornare nei panni di Ben Bernanke?


In un veramente tardivo soprassalto di dignità, Ben Bernanke, in arte Bernspan, ha reso noto al mondo intero che è necessario combattere le pratiche illecite nella concessione dei mutui che stanno emergendo con tutta evidenza nelle migliaia di procedimenti giudiziari intentati dalle donne e dagli uomini che vivono negli Stati Uniti d’America e che si sono visti espropriare le proprie abitazioni gravate da mutui che in un numero significativo di casi contenevano clausole ingannevoli e che non venivano spiegate dalle suadenti voci di quanti offrivano la speranza di divenire proprietari di una casa a condizioni che apparivano realmente meno onerose di quanto sarebbe stato un affitto, voci suadenti ma puntualmente smemorate quando si trattava di spiegare al mutuatario cosa sarebbe accaduto dal secondo o dal terzo anno, al termine del cosiddetto periodo di grazia.

Il più grande mercato immobiliare del mondo, gravato da ipoteche esprimibili in trilioni di dollari, sta vivendo ormai da oltre un anno uno squagliamento dei prezzi delle abitazioni che non è slegato dal fatto che le vendite coatte delle case superano da tempo quelle decise liberamente dal proprietario per un qualsivoglia motivo, un fenomeno che sta innescando un effetto domino sull’economia statunitense che rischia seriamente di durare per un numero indeterminato di anni, con effetti devastanti sul reddito, sull’occupazione e gli investimenti dai quali sarà molto difficile ripartire come se nulla fosse accaduto.

Mr. Bernspan, la proposta di chiudere la stalla a buoi da lungo tempo scappati non rappresenta che l’ultima di una serie di mosse che hanno avuto come esclusiva stella polare gli interessi di Wall Street contrapposti a quelli dei milioni di cittadini statunitensi che sono stati bellamente beffati dalle condizioni più o meno occulte annidate nelle clausole dei mutui subprime, dei micidiali ARM e di tutte le diavolerie inventate da una miriade di finanziarie che, al primo segnale di pericolo, sono corse a mettersi sotto la comoda tutela di una legge fallimentare estremamente severa nel caso dei fallimenti individuali, ma che pare fatta apposta per mettere al riparo dai creditori le società più o meno anonime che hanno inventato un meccanismo infernale di porta girevole nella quale entravano i mutui, i prestiti personali, il credito al consumo, tutti erogati con poca attenzione al merito creditizio dei richiedenti, per uscirne poche ore o pochi giorni più tardi bellamente trasformati nei micidiali titoli salsiccia che, in una sorta di catena di Sant’Antonio, venivano piazzati all over the world presso gli investitori istituzionali, le banche più o meno globali, i SIV, i Conduit e presso i semplici e spesso disinformati risparmiatori.

Se oggi le azioni della la maggior parte delle entità operanti nel mercato finanziario globale sono valutate a prezzi di assoluto saldo rispetto ai massimi toccati prima che il disastro in corso avesse inizio, con sconti che vanno dal 40 sino al 95 per cento, ciò è esattamente il prodotto di un meccanismo perverso che avviatosi in sordina 22 anni orsono si è poi pervicacemente ed esponenzialmente sviluppato in una sorta di attualizzazione di quel miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci realizzato da un uomo certamente illuminato sulle rive del lago di Tiberiade poco meno di duemila anni fa, determinando l’illusione di una crescita perenne che non trova riscontro nella pur lunga storia del capitalismo, sin dai lontani tempi della prima rivoluzione industriale.

So bene che i più attenti tra quel manipolo di miei fedeli lettori potranno trovare ripetitive affermazioni che in qualche modo erano già contenute nel testo della prima puntata del Diario della crisi finanziaria apparso su diversi siti il 4 settembre del 2007, ma il problema sta nel fatto che quelle delineate allora erano le cause principali dell’avvio della tempesta perfetta, anche se allora non erano chiari a nessuno, ma proprio a nessuno, gli esatti contorni e le reali dimensioni del fenomeno, dimensioni che, mi permetto di ricordarlo, non sono assolutamente ben definiti neanche oggi, in quanto appaiono del tutto superate anche le stime di John Paulson (da non confondersi con Henry, il potente investment banker travestitosi a metà del 2006 da ministro del Tesoro statunitense), l’hedge funder che ha spaventato tutti con la sua previsione di perdite per 1.300 miliardi di dollari, una cifra di per sé spaventosa, ma che rischia di essere superata e di gran lunga in un futuro molto, ma molto prossimo.

Il problema è dato dal fatto che quelle vere cause della crisi finanziaria non sono state assolutamente prese in considerazione né dai banchieri centrali, né dagli organismi sopranazionali, né, tanto meno, dai governi dei paesi maggiormente industrializzati, per non parlare degli analisti e degli economisti del tutto embedded alle logiche del capitale finanziario, il che ha prodotto il prevedibile risultato che sono state adottate misure che, per quanto massicce e prolungate, non sono assolutamente riuscite a tenere il passo con il meltdown finanziario in atto, rappresentando anzi alcune di esse benzina su un fuoco che già divampava alto di per sé.

Di questo inizia ad essere consapevole persino l’ineffabile Bernspan che, dopo aver tagliato tutto il tagliabile in materia di tassi di interesse, non importa che si tratti di quello sui Fed Funds che ha portato dal 5,25 al 2 per cento o di quel tasso ufficiale di sconto da anni del tutto inutilizzato, per non parlare poi della provvidenziale, per le Investment Banks e le banche più o meno globali, apertura delle discariche a cielo aperto destinate ad ospitare, valutandoli come fossero buoni, i titoli della finanza strutturata che nessuno ormai vuole più, inizia a rendersi conto di aver sbagliato approccio, cosa realmente grave per un individuo che, sotto il nome di Ben Bernanke, ha dedicato la sua vita a studiare le crisi finanziarie e che, trovandosene di fronte una che ha del paradigmatico, dimostra al mondo intero di non sapere proprio che pesci pigliare e che, invece di punire il moral hazard, pensa solo a salvare il salvabile a spese dei contribuenti statunitensi, ovviamente.

Un miracolo, tuttavia, è riuscito a farlo anche Bernspan, uno che è riuscito a trasformare un modesto banchiere francese, peraltro di non eccellente performance quando sedeva sulla tolda di comando di una banca del suo paese, in un vero campione dell’indipendenza e dell’autonomia della Banca Centrale Europea, uno che dà schiaffoni ai governanti che cercano di indurlo a seguire l’esempio statunitense e che, non pago di questi successi, riesce anche a riscuotere applausi aumentandoli una prima volta pochi giorni fa, lasciando peraltro chiaramente capire che non è che l’inizio di una serie di mosse volte a riportare il tasso di intervento ad una distanza di almeno un punto percentuale dal tasso di inflazione, roba che forse neanche Tietmeyer e la sua Bundesbank avrebbero mai osato fare.

Venendo alle tragedie odierne, è il caso di registrare il balzo in avanti della ormai tecnicamente fallita e pluridegradata Ambac, che, dopo avere respinto sdegnosamente a dicembre dell’anno scorsa una proposta del tutto similare avanzata da un miliardaria suo pretendente, sta cercando in ogni modo di far decollare una sussidiaria e di farle attribuire quella tripla A che come Ambac non riotterrà mai più.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/