mercoledì 1 ottobre 2008

I tassi interbancari USA vanno alle stelle!


Guardando le pagine che riportano i tassi praticati sul mercato interbancario, si aveva l’impressione di una curiosa inversione tra il LIBOR relativo al dollaro e quella che fa riferimento all’euro, con l’overnight al 7 per cento circa ed il tasso chiave a tre mesi pari al tasso di riferimento della banca Centrale Europea, portato dal germanizzato Trichet e dai suoi colleghi neotemplari del board dell’istituto basato a Francoforte, proprio a quel 4,25 per cento necessario nella febbrile seduta di ieri ad una banca per ottenere fondi a tre mesi da un’altra banca, peccato che ben pochi fondi fossero realmente disponibili, in quanto oramai vige il principio che si prendono i fondi generosamente distribuiti dalle banche centrali e poi ce li si tiene stretti, stretti, a riprova del perdurante clima di reciproca sfiducia esistente tra le diverse protagoniste del settore creditizio, che, come ricordava ieri, a volte danno proprio l’impressione di non fidarsi troppo neppure di loro stesse!

Il rimbalzo di ieri, dopo la peggior seduta che Wall Street ricordi da almeno venti anni, permette di recuperare ben poco di quanto è stato perso in una interminabile seduta che verrà certamente ricordata come un Black Monday, iniziato peraltro molto prima che la rivolta bipartisan dei deputati mandasse a picco il piano elaborato dal celebre duo Paulson-Bernspan e fortemente caldeggiato da quell’anatra zoppa che è oramai divenuto quello che Paul Samuelson, nella nonagenaria saggezza, definisce il peggior Presidente degli Stati Uniti d’America degli ultimi duecento anni e che risponde al nome di George W. Bush, una caduta rovinosa che aveva molto più a che fare con la crescente consapevolezza del fatto che il contagio della tempesta perfetta ha oramai travolto le coste del continente europeo, dove, ai numerosi salvataggi maturati nel week end, si è aggiunto ieri il salvataggio della compagnia di assicurazione Dexia.

La consapevolezza della globalizzazione della crisi finanziaria in corso sta ormai prendendo il posto di quella sorta di beata incoscienza indotta dalle legioni di economisti, analisti e giornalisti del tutto embedded ai reggimenti corazzati delle Investment Banks e delle banche più o meno globali, una consapevolezza che rende quasi stucchevole il dibattito in corso negli Stati Uniti sul via libera o meno al tanto discusso piano di salvataggio fortemente voluto da Bush e da autorevoli esponenti della sua amministrazione, in quanto è ormai sotto gli occhi di tutti che le conseguenze della tempesta perfetta sulle immense banche europee pone dei problemi di ancor meno facile soluzione di quelli provocati dai dissesti delle banche statunitensi, le cui dimensioni in termini di attivo totale rispetto al PIL del paese a stelle e strisce sono certamente molto meno significative di quanto accade per Barclays rispetto alla ricchezza prodotta ogni anno dalla Gran Bretagna o per la Deutsche Bank ove confrontata con il PIL della Germania.

L’evidenziazione del paradosso che, in luogo del too big too fail, vede l’apparizione minacciosa del troppo grande per essere salvata, non deve peraltro stupire, alla luce del processo di concentrazione estrema verificatosi nei principali paesi europei, Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Spagna, paesi nei quali, seppur con vistose differenze tra caso e caso, si è assistito alla concentrazione di buona parte del sistema bancario su due, massimo tre soggetti che non solo hanno raggiunto dimensioni enormi, ma hanno anche acquisito la forma di banca universale, grazie ai provvedimenti comunitari ed alle specifiche traduzioni nelle legislazioni nazionali volti ad abbattere le barriere esistenti tra l’operatività a breve termine e quella a lungo termine, l’eliminazione degli istituti di credito speciale e delle sezioni degli un tempo istituti di diritto pubblico, entrambe spazzate via dai provvedimenti adottati negli anni Ottanta e Novanta, così come il venir meno delle barriere esistenti tra le banche e le imprese industriali.

Ma la battaglia per la spartizione dell’immenso mercato della ricchezza finanziaria dei cittadini europei e la partecipazione all’altrettanto violenta battaglia in corso per acquisire fette sempre più rilevanti della ricchezza finanziaria mondiale, stimata, forse per difetto, in 150 mila miliardi di dollari, ha creato un ristretto numero di giganti finanziari e creditizi, a loro volta spesso fortemente interrelati con altrettanto immense compagnie di assicurazione, ognuno dei quali ha raggiunto dimensioni veramente colossali e che rischiano, alla luce, ad esempio, dei desiderata dell’impetuoso presidente della repubblica francese Nicholas Sarkozy, di diventare ancora più grandi, via merger non del tutto spontanei che partono dal falso assunto che ciò renderebbe le banche risultanti molto più forti nella loro problematica unione di quanto lo sarebbero lasciate a sé stesse!

Non è mai troppo tardi per sperare in un redde rationem dei decision makers politici e credo che basterebbe che gli uomini al vertice delle banche che i governi vorrebbero unite in matrimonio spiegassero agli uomini politici le vere dimensioni delle loro quote nell’industria del risparmio gestito europeo e globale, nonché il banalissimo fatto che operazioni del genere spesso non si limitano a sommare i rischi, ma rischiano piuttosto di moltiplicarli, per non parlare poi delle differenze, a volte enormi, esistenti tra le diverse metodologie e le diverse sensibilità rispetto a questioni non del tutto secondarie quali il sistema dei controlli, i modelli di risk management e le stesse regole etiche e deontologiche adottate dalle diverse banche universali potenzialmente oggetto dei piani studiati a tavolino all’Eliseo, così come nel palazzo della Cancelleria tedesca, o nei colloqui a tre tra il cancelliere dello Scacchiere, il Governatore della Bank of England ed il presidente dell’FSE, a Palazzo Chigi o nelle stanze dove opera il giovane premier spagnolo, Luis Zapatero.

Il problema vero nel realizzare questi colloqui tra i vertici delle banche più o meno globali europee ed i rispettivi governanti risiede, tuttavia, nel fatto che i primi dovrebbero avere il coraggio di dire ai secondi che nemmeno loro sono del tutto al corrente di cosa si nasconda nelle immense pance delle loro altrettanto immense divisioni di Corporate & Investment Banking, nonché nelle non certamente minori divisioni finanza delle compagnie di assicurazione che le controllano o che sono da esse stesse controllate, il che potrebbe essere vero oggi quanto lo era allo scoppio della crisi il 9 di agosto dell’anno scorso, un problema del quale sono forse consapevoli solo i membri del Sistema Europeo della Banche Centrali o forse le donne e gli uomini che hanno collaborato con Mario Draghi nella stesura di quella bozza definitiva del rapporto del Financial Stability Forum che è oramai divenuto la vera Araba fenice della tempesta perfetta, quel chimerico animale cui da sempre viene attribuito il “che vi sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”!

Mi permetto, come al solito sommessamente e con il massimo garbo, a suggerire all’oramai mitico Effe O Ixs, al secolo Christopher Cox, l’uomo che, almeno sulla carta, dovrebbe essere il numero uno della Securities and Exchange Commission, di gettare uno sguardo alle escursioni quotidiane verso l’alto e verso il basso delle azioni delle principali entità finanziarie statunitensi, un fenomeno che sta assumendo dimensioni del tutto inopportune in quello che pretende di essere un mercato regolamentato.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.