sabato 27 settembre 2008

Sarà davvero un lunedì da leoni!


Nell’unico commento che ha fatto dopo aver messo sul piatto la somma di 5 miliardi di dollari per sottoscrivere preferred shares dell’ex Investment Banks Goldman Sachs, il Leone di Omaha, Warren Buffett, ha affermato che quello che sta avvenendo nel mercato finanziario statunitense è paragonabile a Pearl Harbour, forse l’unico trauma paragonabile per i cittadini degli Stati Uniti d’America a quello legato ai tragici fatti dell’11 settembre del 2001, un paragone che, se non vado errato è stato fatto dall’anziano finanziere prima che la più grande cassa di risparmio del mondo con migliaia di sportelli ed un totale dell’attivo superiore a 300 miliardi di dollari, la Washinton Mutual, seguisse la sorte di Bear Stearns, Lehman Brothers, Countrywide, Merrill Lynch, IndyMac ed altre dieci banche troppo piccole per essere ricordate, per non parlare delle decine di finanziarie specializzate nel disastrato comparto del mortgage riparatesi tra luglio ed agosto del 2007 sotto la protezione che l’accomodante legge fallimentare statunitense accorda a chi non è più in grado di pagare i suoi creditori.

Dopo aver trascorso oltre tredici mesi a sentirmi appellare Cassandra da amici e conoscenti che non riuscivano a vedere come il disastro che sta deflagrando in questi giorni fosse già scritto sin dall’inizio di quella che giustamente è stata definita la più grave crisi di liquidità dalla fine del secondo conflitto mondiale e, cioè, sin dal 9 agosto dell’anno scorso, mi desta una certa impressione veder i titoli catastrofici e catastrofisti presenti su quotidiani di ogni orientamento, o trasmissioni televisive che ospitano il tre volte ministro italiano dell’Economia recanti in basso sul teleschermo una scritta che dice lo tsunami americano, una sensazione che non è certo di soddisfazione, anche perché avrei preferito mille volte venire dileggiato per avere avuto torto, piuttosto che assistere allo sfacelo attuale, il tutto aggravato dalla consapevolezza che, mentre tutti pensano che siamo proprio arrivati alla frutta, sono convinto che non siamo neppure giunti all’antipasto e che il peggio, soprattutto a livello sistemico, deve ancora venire.

Quello che davvero non mi aspettavo è l’indecoroso spettacolo di quel folto manipolo di legislatori repubblicani che, per ragioni meramente legate alla loro rielezione alle prossime elezioni legislative che si terranno in uno con le presidenziali, stanno sparando a zero sul loro presidente, reo di aver accettato le modifiche sacrosante richieste dalla maggioranza democratica al mega piano di salvataggio che lasciava troppo potere al suo proponente, l’ex (?) investment banker ed attuale ministro del Tesoro statunitense, Hank Paulson, modifiche, peraltro, talmente stupide ed irrazionali che non credo proprio siano da ascrivere ai potenti e molto influenti lobbisti al soldo di Big Finance, persone che saranno pure senza scrupoli, ma che conoscono a sufficienza la materia per non avanzare proposte demenziali e caratterizzate da un alto tasso di analfabetismo finanziario come quelle che sono state avanzate da quelli che per anni hanno ritenuto Bush il loro comandante in capo, anche quando distruggeva la politica estera e riusciva nel miracolo di scassare quei conti pubblici che Bill Clinton gli aveva lasciato in perfetto ordine.

Pur ritenendo gli otto anni di presidenza Bush poco meno che un castigo biblico, un periodo che rappresenta tempo perso per l’edificazione di quel nuovo ordine politico internazionale e di quel sistema economico e finanziario più simmetrico e giusto che le donne e gli uomini che abitano il nostro pianeta avrebbero tutto il diritto di vedere realizzati, penso che stavolta qualcuno abbia spiegato bene la situazione all’attuale inquilino della Casa Bianca, forse dimenticandosi di raccomandargli di non parlarne allo stesso modo e con la stessa chiarezza nel recente discorso fatto in prima serata a reti televisive pressocché unificate, un discorso che conteneva un’analisi delle vere cause della tempesta perfetta che potrebbe trovare concordi anche persone come Nouriel Rubini, Noam Chomski ed altri pensatori non proprio caratterizzati da simpatie repubblicane.

D’altra parte, non si era mai visto un piano di salvataggio di queste dimensioni a poche settimane dalla più partecipata competizione elettorale che si ricordi dal dopoguerra, una di quelle contese nelle quali, al di là delle falsissime cortesie e dichiarazioni bipartisan, nessuno dei contendenti ha realmente intenzione di fare prigionieri, una competizione che, soprattutto nel corso del rush finale ha raramente a riferimento il bene comune, ma punta piuttosto a cogliere in contraddizione l’avversario, come sta tentando in queste ore di fare quella spregiudicata pattuglia di congressisti repubblicani che vorrebbero addebitare ai loro avversari il piano proposto dal “loro” presidente, dal “loro” ministro del Tesoro, dal “loro” presidente della Federal Reserve e dal loro numero uno della Securities and Exchange Commission.

Non so da cosa discendano la sicurezza ostentata da Bush e dalla sua addetta stampa sul certo varo del provvedimento entro lunedì, ma quello che è certo è che un eventuale fallimento nella difficilissima mediazione tuttora in corso e l’impatto emotivo del drammatico discorso di Bush aprirebbero scenari realmente preoccupanti e rischierebbero seriamente di rompere il precario equilibrio che sta tenendo insieme quel che resta del sistema finanziario statunitense, con conseguenze altrettanto serie su quello globale.

Chiunque vincerà le prossime elezioni presidenziali si troverà a gestire una situazione che lascia ben pochi margini di manovra, in quanto economisti attendibili confermano che, dopo il consolidamento dei titoli rappresentativi del debito di Fannie Mae e Freddie Mac, le somme erogate a vario titolo dalla Fed e dalla FDIC e quelle che, qualunque sarà la soluzione trovato in questo week end, verranno stanziate per acquistare i titoli tossici, il debito pubblico statunitense supera per la prima volta nella storia il prodotto interno lordo, 16 mila miliardi di dollari contro 15 mila, il disavanzo difficilmente sarà al di sotto dei 600 miliardi nel 2009, mentre la posizione netta sull’estero continua ad essere in profondo rosso ed alla mercé delle decisioni dei paesi strutturalmente in avanzo, in particolare di quelli asiatici che fanno la parte del leone nella detenzione dei titoli del Tesoro americano.

Nei mesi scorsi, ho più volte sottolineato che, alla fine dei giochi, assisteremo ad un processo molto rilevante di concentrazione ai piani alti delle banche statunitensi, ma già oggi è possibile vedere che la J.P. Morgan Chase ha dovuto incorporare una Investment Bank del calibro di Bear Stearns e da ieri la prima cassa di risparmio degli Stati Uniti, mentre Bank of America ha assorbito il colosso incontrastato dei mutui, acquistando Countrywide, ed ha dovuto acquistare anche essa una Investment Bank come Merrill Lynch, il tutto mentre le spoglie di Lehman Brothers sono ancora in corso di aggiudicazione, un processo che è solo agli inizi e che rischia di vedere le originarie nove grandi banche USA, le Big five dell’investment banking e le quattro grandi banche commerciali, ridursi ad un numero massimo di tre-quattro, che peraltro avranno tutte la caratteristica di banche commerciali, mentre analoga falcidia caratterizzerà le banche di piccole e medie dimensioni, attualmente in numero di settemila circa.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.