giovedì 4 settembre 2008

Si scrive Ambac ma si pronuncia Connie Lee!


Tra i dossier che stanno facendo perdere il sonno all’ex investment banker Henry Paulson ed ai suoi ex colleghi per il momento ancora al vertice delle Investment Banks e delle banche più o meno globali, non avevo incluso quelli delle due maggiori compagnie di assicurazione monoline, MBIA ed Ambac, non perché non si trattasse di questioni meritevoli di attenzione, quanto per mere ragioni di priorità e di maggior impatto sistemico delle partite aperte sulla alquanto disastrata Lehman Brothers, sulla Merrill Lynch tuttora in mezzo al guado dopo il coraggioso outing del suo Chief Executive Officer John Thain e sulle due entità semipubbliche Fannie Mae e Freddie Mac il cui salvataggio si presenta di più difficile soluzione di un koan zen.

Certo, in un mercato finanziario statunitense nel quale, come rivelava ieri David Kotok, la lista delle 117 banche a stelle e strisce a rischio è talmente inaffidabile che la revisione fatta al 30 giugno non prevedeva la presenza della Indimac, 32 miliardi di dollari di assets, tragicamente scomparsa pochi giorni dopo la revisione della lista dei morituri (che in 90 assommavano assets per soli 29 miliardi di dollari) non c’è veramente da attendersi nulla di buono, anche alla luce della nuova regola aurea della tempesta perfetta che prevede che i vascelli di minore stazza vengano tranquillamente lasciati al loro destino, mentre tutte le attenzioni delle autorità monetarie vengono concentrate sui sempre più frequenti SOS lanciati dalle imbarcazioni di maggiore stazza o che rappresentano intrinsecamente intrecci che sarebbe troppo pericoloso sciogliere quando il mare è a forza nove costante da quasi tredici mesi.

La notizia relativa alle monoliner è rappresentata dal fatto che i vertici della pluridegradata Ambac hanno finalmente posto il sigillo alla loro capitolazione di fronte alle richieste perentorie di un investitore miliardario che in dicembre si era detto disposto ad investire massicciamente nella compagnia alla condizione che la stessa splittasse le garanzie prestate alle emissioni dei titoli della finanza strutturata, lasciando questa parte infetta al suo inevitabile destino e tornando a concentrarsi sul lucroso e relativamente sicuro business dei cosiddetti munibonds, anche in questo caso, quindi, un progetto che prevede di tagliare la gamba infetta per evitare la cancrena!

Ebbene, dopo strepiti, alti lai, conditi da frasi offensive e minacciose nei confronti dell’improntitudine mostrata dall’investitore, ma anche molto preoccupati delle mosse del Leone di Omaha, Warren Buffett, che si appresta ad entrare in forze nel ricco settore delle garanzie prestate alle emissioni della pubblica amministrazione statunitense a livello di stati, contee, municipi ed organismi collaterali ad essi facenti capo, i tremebondi personaggi al vertice si sono alfine decisi ed hanno ricevuto dall’autorità statale competente sulle compagnie di assicurazione del Wisconsin il via libera al progetto che vede la concentrazione in Connie Lee (ma pensate che nomi: Fannie Mae, Freddie Mac, Sallie Mae e Connie Lee!), che riceverà presto un nuovo nome, 850 milioni di dollari di dotazione, l’esclusiva sull’operatività nel piatto ricco dei munibonds e, almeno così si augurano ai piani alti della compagnia, la magica tripla A da quelle agenzie di rating che, almeno in passato, si sono distinte per non negarla proprio a nessuno che non fosse già in pieno default.

Dispiace per Corrado Passera che, come tanti cantanti italiani negli anni Sessanta che spacciavano per roba loro le hits in voga all’estero, ha pensato di essere stato originale su Alitalia, ma l’idea di ristrutturare un’azienda in serie difficoltà, per l’esattezza nell’ultimo miglio che porta dritti, dritti nelle confortevoli braccia della ancora accomodante legge fallimentare statunitense, mediante l’opportuna scissione in una bad company di tutto il marcio esistente, si studia ad Harvard, Yale e Princeton da decenni, mentre esistono volumi alti parecchie dita che spiegano per filo e per segno come tale modus operandi rappresenti un vero e proprio cancro per le regole di base di un mercato sano, concorrenziale e trasparente.

Ma così va il mondo ed anche io, come Maffeo Pantaloni, a volte vorrei scendere, ma poi sempre resto qui, sperando molto immodestamente che è pure necessario che continui ad esserci qualcuno che metta il naso nelle malefatte di un capitalismo finanziario che dà il meglio ed il peggio di sé quando è nella peste come ora, in quanto è nelle fasi turbolente che tutte le frasi retoriche e le favolette per bambini quali: “puniremo inesorabilmente il moral hazard” o “è definitivamente finito il tempo del ‘too big too fail’”, vengono prontamente dimenticate e, come fossero un sol uomo, stuoli di avvocati più o meno d’affari, autorità federali, il Governo degli Stati Uniti d’America, quel mite professore di Princeton tragicamente mutatosi in Bernspan, banchieri di investimento e banchieri più o meno globali, società di rating in pieno ed irrisolto conflitto di interessi tornano all’unica legge che conoscono, quella che prevede che qualcuno, i contribuenti, paghino l’immenso conto dei disastri partoriti da un mercato finanziario globale, che, come hanno autorevolmente detto il Presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy ed il suo omologo tedesco è veramente e tragicamente impazzito!

Potrebbe anche bastare, almeno per oggi, ma non posso esimermi dal segnalare che quei furboni della Korean Development Bank stanno iniziando ad alzare il velo sui loro progetti e fanno ufficiosamente sapere che sarebbero anche disposti a venire in soccorso di Richard Flud e della “sua” Lehman Bros., ma ad alcune e precise condizioni, la prima delle quali è che non intendono spendere più di 5,3 miliardi di dollari per ottenere il 25 per cento delle azioni, valutando così l’intera Investment Bank 21 miliardi di dollari, ad onta del fatto che ne valesse almeno quattro volte tanto appena un anno fa, confermando quasi al dollaro la valutazione implicita della scommessa fatta in tempi non sospetti dall’hedge funder David Einhorn e da quel folto gruppo di miliardari che si sono messi sulla sua scia, tutti apertamente minacciati da Richard che li ha anche definiti incompetenti non in grado di comprendere il vero valore della sua creatura, ma che ora dovrà piegarsi alle pretese dei coreani e sperare che vogliano, per sovrammercato, fargli la grazia di lasciarlo al suo ottimamente remunerato posto.

Nel suo furore da belva ferita ed impazzita dal dolore, Richard è veramente pronto a tutto, come ben sanno le donne e gli uomini che, a tutti i livelli, lavorano per la un tempo prestigiosa banca di investimenti, in particolare quelli che, a volte dopo decenni di lavoro appassionato, si sono visti recapitare di venerdì pomeriggio la fatale letterina che li informava che il loro tempo era finito e di fare in fretta gli scatoloni con gli effetti personali, così come lo sanno bene i suoi più stretti collaboratori che si sono visti mettere brutalmente alla porta o quelli, sono veramente tanti, che si sono cercati in fretta e furia collocazioni altrove, prima che fosse troppo tardi, una ricerca certamente non facile in una fase nella quale il firing fa veramente premio sull’hiring nell’investment banking, ma, purtroppo, anche nel retail banking!

Quando, in una data imprecisata ma che temo vada collocata molto più in là nel tempo di quanto facciano gli economisti più pessimisti sulla piazza, tutto questo sarà finalmente finito, credo proprio che ci dovremo tutti interrogare sui danni diretti e collaterali, e sarà un conto davvero pesante.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.