mercoledì 14 gennaio 2009

Basterà lo smantellamento del modello di banca universale per salvare Citigroup?


E’ ancora presto per comprendere l’impatto derivante dalla nuova impostazione annunciata dal presidente eletto, Barack Obama, sulla gestione della seconda tranche da 350 miliardi di dollari del TARP, anche se le parole da lui utilizzate sono inequivocabili, lasciando chiaramente intendere che il mandato che verrà assegnato al nuovo ministro del Tesoro, l’attuale presidente della Federal Reserve di New York, Timothy Geithner, sarà quello di utilizzare questi fondi in modo molto meno bancocentrico, anche alla luce degli scarsi effetti in termini di offerta di credito derivante dall’utilizzo quasi esclusivo in termini di ricapitalizzazione delle sei principali entità creditizie a stelle e strisce.

Di tutto questo mostra di essere ben consapevole il giovane Chief Executive Officer di Citigroup, Vikram Pandit, che ha ieri compiuto un altro e deciso passo in direzione dello smantellamento del modello di banca universale che si era rivelato vincente tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del nuovo millennio, ma che, soprattutto negli anni della gestione di Chuck Prince III, ha portato il gruppo a soffocare sotto una vera e propria montagna di titoli della finanza più o meno strutturata che è stata solo parzialmente smaltita grazie al generoso aiuto della Fed che si è fatta carico di titoli più o meno tossici per poco meno di 400 miliardi di dollari, fornendo in cambio a Citi l’equivalente in moneta sonante.

Come ricordavo di recente, il colosso creditizio statunitense dai piedi alquanto di argilla, ha anche rastrellato decine di miliardi di capitali privati di provenienza locale e straniera, ha ricevuto la parte più consistente della prima tranche del TARP, 45 miliardi di dollari mediante la sottoscrizione di azioni privilegiate e altri 5 miliardi a non ricordo bene più quale titolo, ma ben difficilmente potrà evitare di presentare, per il quinto trimestre consecutivo, i conti in rosso, anche se forse un po’ mitigato dalle nuove previsioni in materia di rappresentazione di bilancio provvidenzialmente, per Citi e le sue sorelle poste al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, dalle raccomandazioni di un terrorizzato consesso del G20 prontamente e addirittura retroattivamente raccolte dalle competenti autorità.

Come era oramai largamente previsto, si è trattato in realtà della vendita di Smith Barney, un tempo il gioiello della corona della multinazionale del credito, in quanto, oltre ad avere acquisito per 7,2 miliardi di dollari il 51 per cento della nuova entità, Morgan Stanley la ha prontamente ribattezzata Morgan Stanley Smith Barney, si farà carico di 20 mila consulenti che gestiranno 1.700 miliardi di dollari di patrimonio di poco meno di sette milioni di clienti sparsi in numero di paesi di poco inferiore a quelli rappresentati all’assemblea delle Nazioni Unite, un’operazione che consentirà a Citigroup un effetto sui conti del prossimo trimestre, al netto delle tasse, di 5,8 miliardi di dollari, di mantenere comunque il 49 per cento delle azioni della nuova entità, mentre è previsto un risparmio di costi nell’ordine di 1,1 miliardi di dollari, benefici certamente rilevanti ma che non pongono Citi in zona di sicurezza.
Dopo essere sprofondata nella giornata di lunedì sino a 5,60 dollari e aver dovuto accusare una flessione a due cifre, l’azione di Citigroup ha recuperato 30 centesimi di dollaro dopo l’annuncio dei dettagli dell’operazione, un rialzo del 5,36 per cento che, seppur ragguardevole, non è assolutamente in linea con i movimenti da montagne russe cui ci siamo abituati in questi mesi e che testimonia in modo palmare i dubbi e le perplessità nutriti dal mercato sulle possibilità che il giovane timoniere possa riuscire a portare la sua gigantesca nave imbarcante acqua indenne fuori degli alti marosi della tempesta perfetta da poco entrata nel suo diciottesimo anno di vita che, secondo gli osservatori più ottimisti, dovrebbero rappresentare più o meno la metà della sua durata complessiva!

Come non bastassero i problemi legati all’andamento dei conti e alla qualità (sic) dell’attivo, buona parte del gotha bancario statunitense si trova ora alle prese con lo scandalo delle aste abbondantemente truccate dei cosiddetti Muni Bonds, un inchiesta giunta oramai a buon punto e che potrebbe rivelarsi estremamente dannosa, oltre che ovviamente molto costosa, per colossi quali J.P. Morgan-Chase (sì proprio quella che ha comprato per un piatto di lenticchie le spoglie dell’orso di Stearns eche si vantava di essersela abbastanza cavata nella crisi finanziaria più devastante a memoria di uomo) e per altre banche di prima fila coinvolte nelle indagini, un’inchiesta che sta facendo emergere un giro di mazzette di dimensioni complessive veramente mostruose che rischia di provocare un vero terremoto nelle molteplici amministrazioni locali coinvolte.

Credo davvero che il G20 previsto per la metà di aprile sarà chiamato ad affrontare alla radice la questione etica che sta emergendo un po’ all over the world, una questione che non può assolutamente essere limitata alla pur macroscopica questione dei sistemi di compensation, ma che deve mettere sotto la lente i comportamenti tutt’altro che episodici che mostrano come ci troviamo di fronte a sistemi alquanto disinvolti nella conduzione degli ‘affari’ e come non ci si possa più limitare a parlare di qualche mela marcia per una condotta che rischia di coinvolgere l’intero frutteto, anche perché, in assenza di una bonifica radicale e all’individuazioni di agili ed efficaci sistemi di controllo, ben difficilmente gli investitori/risparmiatori porranno fine a quello sciopero degli investimenti che va avanti pressoché ininterrottamente dall’estate del 2007.

L’incontro tra le fondazioni azioniste di Unicredit Group, come ci informa la stampa, è stato solo il primo di una serie di appuntamenti per decidere il da farsi, ma è molto interessante che, al termine dello stesso, Paolo Biasi di Cariverona, i due vicepresidenti di Unicredit, Gutty e Palenzona e Alessandro Profumo abbiano tenuto un summit!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.