giovedì 12 febbraio 2009

L'America di Obama ce la mette tutta, mentre l'Europa continua a farsi male da sola!


L’approvazione da parte del Senato di una versione modificata del Piano Obama non ha, ovviamente, messo la parola fine alla telenovela alquanto lunga che sta caratterizzando il primo tentativo del nuovo inquilino della Casa Bianca di mettere in pratica parte del suo programma, ma, e forse soprattutto, il tentativo di non restare imbrigliato da quelli che ha definito in diretta televisiva i soliti giochi di una Washington politica alla quale non si deve essere abituato più di tanto nei soli due anni di esperienza da senatore, una longevità parlamentare veramente effimera alla luce del fatto che è universalmente noto che la camera alta statunitense ha un tasso di ricambio tra i più bassi rispetto alle omologhe istituzioni degli altri paesi maggiormente industrializzati.

Penso sia totalmente inutile addentrarsi nel merito delle proposte miranti a rendere maggiormente omogenee le due versioni del piano approvate dalla Camera dei rappresentanti e dal Senato, operazioni certamente indispensabile per giungere a un testo che possa essere portato alla firma del presidente, anche perché l’esperienza insegna che, quando sono al lavoro le diplomazie dei due maggiori partiti americani, è meglio aspettare che si posi la polvere delle discussioni, delle negoziazioni e degli scambi e avere tra le mani il testo definitivo.

Molti commentatori e analisti più o meno embedded hanno espresso il loro stupore per la reazione molto negativa del mercato finanziario a stelle e strisce rispetto al piano presentato dal nuovo ministro del Tesoro, il giovane ma molto esperto Timothy Geithner, in merito alla non secondaria questione di come verranno utilizzati i secondi e ultimi 350 miliardi di dollari previsti dal TARP, anche perché, grazie a meccanismi moltiplicativi e alla partecipazione prevista da parte dei privati, da fondi per 200 miliardi di dollari dovrebbero scaturire interventi multipli di quasi dieci volte, interventi, peraltro, che sembrano avere, anche per le tecnicalità previste, molto minori probabilità di essere a fondo perduto.

Molto probabilmente, la reazione che ha affondato martedì l’intera flotta delle entità protagoniste del mercato finanziario statunitense, in particolare le sei maggiori banche sopravvissute ai sempre più alti marosi della tempesta perfetta, ha le sue radici nel fatto che Obama prima e Geithner poi hanno detto a chiare lettere che anche quel meno di un terzo dello stanziamento complessivo destinato a ricapitalizzazioni delle banche non sarà dato senza condizioni molto stringenti sui sistemi di compensation complessiva dei dipendenti di ogni ordine e grado di questi colossi creditizi e sulla stabilità, se non la crescita, degli impieghi in favore delle famiglie e delle imprese, anche perché non è ipotizzabile che la Federal Reserve possa a lungo sostituirsi alle banche come sta, invece, facendo da molti mesi a questa parte!

Una delle poche critiche condivisibili nei confronti dell’enunciazione delle intenzioni delle autorità monetarie a stelle e strisce è quella che rileva la scarsità dei dettagli su aspetti affatto secondari quali il prezzo al quale verranno acquistati dalla Bad Bank i titoli più o meno tossici della finanza strutturata, prezzi che non possono essere troppo bassi per non dissuadere le banche dal venderli, né troppo alti in quanto, altrimenti, sarà molto difficile coinvolgere finanzieri privati nell’operazione, anche perché è davvero arduo pensare che persone come Buffett, Soros e altri miliardari simpatizzanti del nuovo corso obamiano siano disponibile a partecipare a operazioni destinate a produrre perdite e non profitti.

La riscossa di ieri delle quotazioni della maggior parte delle banche statunitensi, anche se non del tutto in grado di recuperare appieno le rilevantissime perdite registrate il giorno precedente, nasce dalla constatazione che, in un modo o in un altro, qualcosa come tremila miliardi di dollari sono stati impegnati dal Tesoro e dal Congresso e la gran parte di questi fondi sono aggiuntive rispetto ai 7.600 miliardi già stanziati nei primi diciotto mesi della tempesta perfetta, per non parlare del fatto che buona parte di questi fondi verranno utilizzati per togliere dal groppone delle banche una parte significativa di quella montagna di titoli della finanza strutturata che ancora ingolfano i loro bilanci, una lettura che è rafforzata dal fatto che la parziale riscossa del comparto finanziario non è riuscita a influenzare i tre principali indici di Wall Street.

Come ho avuto modo di ripetere più volte, gli Stati Uniti d’America, vero epicentro del meltdown finanziario a livello globale, stanno reagendo molto, ma molto meglio dell’Europa alla tempesta perfetta, non solo e non tanto per la vastità dei mezzi finanziari messi in campo con grande determinazione, ma anche perché le ex Investment Banks e le maggiori banche universali sono impegnate nel deleverage e nello smaltimento dei titoli tossici dall’autunno del 2006, un modo di agire molto preveggente che ha visto per molti mesi i maggiori gruppi bancari europei e asiatici nel ruolo di prenditori netti di quei prodotti della finanza strutturata che apparivano allora come galline dalle uova d’oro.

Ma la vera differenza esistente tra le due sponde dell’Oceano Atlantico risiede nella diversa elasticità dei rispettivi sistemi economici, politici e regolatori, una diversità che non viene certo scoperta oggi, ma che rischia di impedire ai ventisette paesi membri dell’Unione europea, in particolare a quelli di più recente affiliazione che, non a caso, non sono in grado di garantire il passivo delle banche e tra le banche al pari di quanto hanno fatto i paesi fondatori e la Gran Bretagna, una differenza a sua volta rilevante e che difficilmente potrà essere sanata nel prossimo vertice straordinario dei capi di Stato e di governo, né credo che l’intesa franco-tedesca preveda qualcosa in questa direzione.

Così come non è del tutto un caso che l’intervento congiunto dei governi del Belgio, dell’Olanda e del Lussemburgo per evitare il fallimento di Fortis sia stato respinto dall’assemblea degli azionisti, apparentemente incuranti dell’ipotesi quasi certa del fallimento del gruppo bancario e assicurativo!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .