giovedì 26 marzo 2009

Ma qual'è il male oscuro di Unicredit Group? (seconda parte)


Quando ero un contributore assiduo delle pagine economiche de Il Manifesto, ricevevo qualche suggerimento da uno dei fondatori di quel quotidiano, Valentino Parlato, persona di grande umanità e profondo conoscitore della non sempre limpida storia del capitalismo italiano del dopoguerra e che ricordo con immutata stima e grande affetto, anche se una di queste sue perle di saggezza non mi convinse allora e, tanto meno, mi convincerebbe oggi, perché mi invitava a evitare di occuparmi di una singola banca alla volta, ma di inserire eventuali considerazioni specifiche in un articolo che parlasse del sistema bancario in generale o nell’ambito di un confronto tra un certo numero di banche.

Nei venti anni trascorsi dall’ultima pubblicazione del mio ultimo articolo sul quotidiano che continua orgogliosamente a definirsi comunista anche nella sua testata, ho avuto modo, per una sorta di legge del contrappasso, di occuparmi molto delle vicende delle singole banche, in particolare da quando, a partire dal 1998, le seguo dall’osservatorio dell’ufficio studi della UILCA, un lavoro che è stato, peraltro, molto semplificato dal progressivo processo di concentrazione che ha visto confluire nei principali cinque gruppi creditizi italiani centinaia di aziende di credito di ogni ordine e specie, un processo che è stato particolarmente significativo nel caso di Intesa-San Paolo e di Unicredit Group, anche perché i due maggiori gruppi creditizi italiani hanno in tempi recenti aggregato su due soli poli ben quattro gruppi aggreganti, Intesa e San Paolo-IMI, da un lato, e Unicredito Italiano e Capitalia dall’altro.

L’approvazione pressoché contemporanea dei bilancio per l’esercizio 2008 da parte dei competenti organi collegiali di Unicredit Group e Intesa-San Paolo mi consentirebbe di seguire il certamente saggio e prudente consiglio di Valentino, ma, poiché chi nasce tondo non muore quadrato, ne farò oggetto di due distinte puntate del Diario della crisi finanziaria, sia perché si tratta di due realtà molto diverse tra di loro, sia perché sono in debito con i miei lettori di un seguito alla puntata intitolata: “Ma quale è il male oscuro di Unicredit Group?”, apparso il 15 febbraio di quest'anno, che, almeno stando alle statiche gentilmente fornitemi dal mio provider, è stata una delle più lette in assoluto su questo blog e che è stata ripresa da tanti siti che liberamente e molto amabilmente riprendono le puntate che giudicano più interessanti.

Premetto che sono, come tutti, molto contento del fatto che sia Unicredit Group che l’altro grande gruppo creditizio italiano siano riusciti, nel davvero orribile anno di disgrazia 2008, a chiudere i conti con un attivo, rispettivamente, di 4 e 2,5 miliardi di euro, unendosi così alla ristretta pattuglia di grandi banche europee che sono riuscite a chiudere con il segno più quello che verrà indubbiamente ricordato come uno degli anni più tremendi per il credito e la finanza dalla fine del secondo conflitto mondiale, un anno interamente dominato dagli altissimi marosi della tempesta perfetta e che ha visto un ultimo trimestre squassato dalle conseguenze dell’accesso di Lehman Brothers alle procedure previste dal Chapter 11 della legge fallimentare statunitense!

Dato a Cesare quel che è di Cesare, non l’anziano banchiere di Marino, ma i due ex enfante prodige del credito che rispondono ai nomi di Alessandro Profumo e Corrado Passera, confesso di non avere del tutto capito l’entusiasmo dei media e quello degli investitori per dei numeri che, almeno a mio modesto avviso, gettano più ombre che luci sul futuro di entrambi i gruppi, ma in particolare su quello con sede a Piazza Cordusio, con particolare riferimento a quanto viene evidenziato con riferimento ai due ultimi trimestri dell’anno passato.

D’altra parte, come apprendo dal sito di Unicredit Group, una valutazione non dissimile ha espresso l’agenzia di rating Standard & Poor’s che ha deciso di declassare di una posizione tutti i rating attribuiti alle diverse entità del gruppo, portando ad A quello di Unicredit SpA e di altre entità del gruppo che in precedenza avevano A+ e ad A- le tre entità, Unicredit Mediocredito Centrale, Unicredit Leasing e Bank Pekao che in precedenza erano classificate A.

Al di là dell’indubbia eccezionalità del 2008, non può non colpire l’andamento del margine da gestione denaro che registra un vero e proprio exploit, con una variazione a due cifre percentuali (+13,2 per cento), segno indubitabile che ancora una volta il costo di trasformazione della attività bancaria a carattere più tradizionale continua a risentire di quel carattere da oligopolio collusivo che L’autorità Garante per il Mercato e la Concorrenza non ha mancato di rilevare in un suo apposito studio, ma che le imprese affidate vivono ben più dolorosamente sulla propria pelle, in particolare in momenti difficili come quelli attuali, effetti accresciuti da un utilizzo non del tutto neutrale dei sistemi di rating interno dettati dai vari accordi di Basilea, così come è evidente la differenziale possibilità di trasferire gli accresciuti costi della raccolta da clientela ordinaria e quella interbancaria sulle imprese prenditrici, anche se entrambe queste due particolarità appartengono all’intero sistema creditizio italiano, incluse le banche estere operanti in Italia.

Ma quello che più mi ha colpito è la totale disattenzione dei media e dei cosiddetti analisti finanziari al crollo del carico fiscale, calato di oltre l’80 per cento tra i due esercizi, sia per l’applicazione della nuova normativa sull’avviamento che ha consentito di risparmiare oltre un miliardo di euro, sia per altre più favorevoli previsioni che sfatano in larga misura il mito dell’impatto della cosiddetta Robin Hood Tax, così come alla mancanza, a differenza di quanto è avvenuto nel terzo trimestre, della quantificazione dell’impatto positivo derivante dal mancato obbligo di valutare mark to market le attività finanziarie detenute, un impatto che sfiorava il miliardo di euro nel solo periodo luglio-settembre dell’anno scorso; così come scarso peso è stato dato all’esposizione nei cosiddetti paesi a rischio di Unicredit Group che rappresenta una quota significativa di quei 150 miliardi di euro di recente attribuiti da Draghi al sistema nel suo complesso.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nel sito dell’associazione FLIP all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog