martedì 26 maggio 2009

Ma non è che nazionalizzano Bank of America? (seconda e ultima parte)


Le limitazioni poste dallo spazio che mi sono autoimposto per ogni singola puntata del Diario della crisi finanziaria spesso non consentono di sviluppare in modo adeguato ragionamenti complessi e/o questioni che attengono alla stabilità o la stessa sopravvivenza di colossi creditizi di dimensioni enormi come Bank of America, Citigroup, J.P. Morgan-Chase, UBS, Hong Kong Shanghai Banking Corporation, Deutsche Bank, per non parlare poi di quel misto tra un enorme hefge fund e un private equity che è rappresentato dalla potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, un entità che, pur avendo dovuto rinunciare allo stato di investment banks, continua a a trarre il 75 per cento dei suoi ricavi da attività che potrebbero essere definite come delle scommesse sull’andamento delle valute, delle materie prime, degli indici azionari e chi più ne ha ne metta, un settore di attività che presenta in realtà marginali differenze con quella degli scommettitori britannici e che ben si inserisce in quella trasformazione della finanza più o meno strutturata in una sorta di immenso casinò a cielo aperto mirabilmente descritta dal presidente francese Nicolas Sarkozy e dal suo omologo tedesco, peraltro appena rieletto al suo alto incarico.

E’ anche per questo che spesso mi vedo costretto a tornare sull’argomento trattato in precedenti puntate, pubblicando uno o più approfondimenti che servono a offrire al lettore maggiori informazioni su argomenti complessi e delicati e che hanno a oggetto entità quali Bank of America, una banca che era già ai primi posto della graduatoria delle banche statunitensi e globali, ma che, a causa degli effetti disastrosi della tempesta perfetta prossima a entrare nel suo ventitreesimo mese di vita, è stata scelta dalle autorità monetarie a stelle e strisce come polo aggregante di entità bancarie e finanziarie in difficoltà che erano spesso, a loro volta, la prima entità privata nell’immenso mercato del mortgage statunitense, come quella Coutrywide letteralmente spolpata dal suo fondatore Angelo Mozilo, la prima cassa di risparmio degli Stati Uniti d’America, se non del mondo, come Washington Mutual, o una delle comprimarie nel magico gruppo delle Big Five dell’investment banking, quale era Merrill Lynch.

Anche se pure a J.P Morgan Chase, a Wells Fargo e a Morgan Stanley è toccato, volenti o nolenti, di farsi carico di altre importanti entità o di rilevanti settori di attività precedentemente gestite da altri, non vi è dubbio alcuno che il compito assegnato a Ken Lewis e ai suoi principali collaboratori è davvero di quelli che dovrebbero fare tremare i polsi, pure in presenza di prezzi molto modesti pagati per acquisire le sopra citate entità e del sostegno di tutto rilievo ricevuto sia dal ministero del Tesoro, sia dal sistema della riserva federale, un impegno che ha visto dedicare, direttamente o indirettamente, risorse pubbliche per centinaia di miliardi di dollari, 45 dei quali sotto forma di preferred shares particolarmente onerose per la banca, già gravata da un servizio del debito di dimensioni ragguardevoli, preferred shares che, a differenza di quanto è avvenuto per Citigroup, non sono, né in toto né in parte, state convertite in azioni ordinarie, cioè in capitale di rischio per il quale non è in alcun modo, come è peraltro giusto che sia, prevista una remunerazione prefissata.

Non è, quindi, per amore del gossip finanziario che ho riferito dell’incontro alla Casa Bianca tra Obama e i due economisti entrambi insignite del premio Nobel per l’Economia, Robert Eunice Stiglitz e Paul Krugman, due accademici molto impegnati nell’attività divulgativa e che non hanno mai fatto mistero delle loro perplessità per la ricetta prescritta prima dall’ex (?) investment banker Hank Paulson e poi dal suo successore, Timothy Geithner, per l’ammalato sistema finanziario statunitense, una terapia, almeno a dire dei due economisti, costosissima e addirittura peggiore del male, anche perché non prevede, come sarebbe secondo loro doveroso, la, seppur temporanea, nazionalizzazione delle entità tecnicamente fallite e destinatarie di aiuti che rappresentano un mutiplo sia della loro capitalizzazione di borsa che del loro stesso patrimonio (capitale più riserve di avrio titolo e specie).

Mi è bastata la parte del colloquio che Stiglitz ha ritenuto di poter divulgare senza venir meno a quell’impegno di riservatezza da lui esplicitamente menzionato, per capire che Obama, che ha pubblicamente dichiarato di tenere in gran conto l’opinione dei due economisti critici, non ha solo riaffermato la sua volontà di salvare i risparmi e i finanziamenti delle imprese e delle famiglie e di no essere affatto impegnato nella difesa a oltranza dei banchieri e degli altri vertici delle entità protagoniste del mercato finanziario statunitense, ma deve essersi spinto un po’ di più nell’illustrazione della sua road map per raggiungere il predetto scopo, dettagli che, almeno al momento, la nuova amministrazione non ha ancora ritenuto di illustrare ufficialmente ai media e al pubblico.

Avendo svolto per non poco tempo l’attività di central bankers watcher, un’attività non proprio semplice alla luce dell’ermeticità che in quegli anni caratterizzava i banchieri centrali posti al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, ho avuto la pretesa di leggere tra le righe dell’intervista concessa da Siglitz a Eugenio Occorsio l’anticipazione del tanto atteso piano B della nuova amministrazione statunitense, un piano che dovrebbe presumibilmente avere caratteristiche notevolmente diverse da quelle presenti nell’approccio del trio Bush.Paulson-Bernspan, un approccio che potrebbe essere efficacemente sintetizzato in una sola frase: aiutare le maggiori entità protagoniste del mercato finanziario, senza chiedere quasi nulla in cambio!

Stiglitz e Krugman sanno benissimo che non pochi dei consiglieri economici di Obama non sono così lontani dall’approccio dell’amministrazione precedente, così come sono perfettamente consapevoli del fatto che alcuni di questi personaggi hanno grandi responsabilità nella deregulation selvaggia operata ai tempi di Clinton (Larry Summers e Robert Rubin, tanto per non fare nomi), ma vogliono credere, e io con loro, che il giovane nuovo inquilino della Casa Bianca sia davvero uno che ascolta tutti, ma poi decide da solo!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog