domenica 31 maggio 2009

Serge Marchionne è stato davvero stritolato dall'accordo in extremis tra Barack Obama e Frau Angela Merkel!


L’accordo politico intercorso direttamente tra Barack Obama e Frau Angela Merkel ha messo la parola fine alla lunghissima telenovela brasiliana concernente il futuro della casa automobilistica Opel, destinandola, aiuti di stato compresi, all’alquanto inedito consorzio tra la Magna, azienda leader nei ricambi e componenti per l’auto, e i russi della Sherbank e determinando la sconfitta personale dello svizzero-canadese Serge Marchionne, amministratore delegato di quella Fiat che, da Luca Corsero di Monetzemolo al rampollo di casa Agnelli, John Elkann, non si era mai appassionata troppo alla possibilità di realizzare quella massa critica in termini di produzione che non è garantita dalla sola acquisizione della tecnicamente più che fallita Chrysler, che, peraltro, ancora non si sa come uscirà dalle procedure previste dalla legge fallimentare statunitense nelle quali è attualmente ingolfata.

Anche se la maggior parte dei cittadini del pianeta non se ne era troppo accorta, quello che è avvenuto in queste settimane tra la nuova amministrazione americana e il governo tedesco è stato poco di meno che un conflitto in piena regola che, molto più dello scontro che vide Francia e Germania opporsi all’ostinata volontà anglo-americana di fare guerra al regime di Saddam Hussein, ha visto contrapporsi due modelli economici e sociali difficilmente conciliabili, una differenza alla quale non è stata affatto estranea la dicotomia esistente tra il sempre meno potente sindacato a stelle e strisce e la quasi intatta forza delle centrali sindacali tedesche e della sponda socialdemocratica pienamente rappresentata nella Grosse Coalition che domina la Germania dal sostanziale pari cui giunsero Gerard Schroeder e Angela Merkel al termine dello scrutinio delle passate elezioni.

Se un errore Marchionne lo ha commesso è stato proprio quello di sottovalutare la forza e il consenso del cosiddetto modello renano, un modello assolutamente non imitato negli altri principali paesi membri dell’Unione europea e quasi del tutto antitetico a quello imperante nel Regno Unito, in particolare dopo la lunga ristrutturazione messa in atto per oltre dieci anni dal New Labour di Tony Blair, uno che non ha mai fatto mistero di nutrire una sincera ammirazione per le intuizioni della Lady di ferro che risponde al Margareth Thatcher e della quale si è non poche volte vantato di aver completato, con un occhio più attento agli aspetti sociali, l’opera.

Ma altrettanta disattenzione, il povero Serge ha posto alle contrapposizioni profonde che dividono, oggi come ieri, il modello capitalistico renano a quello francese, seppur nella variante decisionista e statalista adottata dal ben poco tenero presidente Sarkozy, per non parlare delle differenze con il molto anomalo modello italiano in salsa berlusconian-tremontiana e con il socialismo basato sull’innovazione e sui cosiddetti ladrillos, i mega costruttori spagnoli attualmente alle prese con una crisi verticale del settore immobiliare, in particolare nell’un tempo fiorente segmento delle seconde case, seconda solo al meltdown in corso in terra statunitense.

Così come, forse per motivi legati alla sua storia personale in gran parte legata a paesi lontani e molto diversi dall’Italia, la sua memoria difettava dei ricordi di numerose avventure di grandi imprese italiane in terra tedesca, inclusa quella parte orientale del paese teutonico graziosamente restituita dall’URSS di Michail Sergeevic Gorbacev nell’ultimo anno della penultima decade del secolo scorso, quali, a solo titolo di esempio, la tragica esperienza dell’industriale siderurgico Riva, la sfortunata scalata della Continental da parte della Pirelli gestita dall’ex genero di lusso di Leopoldo, Marco Tronchetti Provera, l’uomo da Beppe Grillo ribattezzato il Tronchetto dell’infelicità, o, mutatis mutandis, la sfortunatissima telenovela belga che vide sconfitto l’acerrimo nemico di Silvio Berlusconi e patron del gruppo Espresso-Repubblica, l’Ingegner Carlo De Benedetti, uno cui certo non difetta la determinazione personale, né, tanto meno, l’appartenenza a una delle lobby più potenti del pianeta!

E’ difficile, peraltro, chiedere a una nazione che ritiene, a torto o a ragione, di avere pagato un prezzo incommensurabile al processo di realizzazione della moneta unica europea, accogliendo, non senza turarsi abbondantemente il naso, l’Italia nel gruppo dei fondatori della prima ora, ignorando, o fingendo di ignorare, che si trattava del paese caratterizzato dal massimo dell’instabilità politica e che aveva visto, nel cruciale 1995, la propria valuta giungere sino a 1.250 contro il marco e che presentava, nel fatidico momento nel quale vennero decise nel maggio del 1998 le parità fisse e irrevocabili, di un differenziale positivo dei tassi di interesse con quelli tedeschi cifrabile in diversi e molto pesanti punti percentuali, accettando, insieme agli olandesi, persino di concederci, proprio in quella sede, una svalutazione persino superiore a quella determinata nel 1992 dai furibondi attacchi speculativi orditi dal raider pentito George Soros, uno che, insieme a Warren Buffett, ha deciso di non approfittare in alcun modo delle immense possibilità di arricchimento fornite dalla tempesta perfetta prossima a entrare nel suo ventitreesimo mese di vita con pressoché immutata forza distruttiva.

Volendo, come si dice a Roma, riconsolarsi con l’aglietto, si potrebbe anche dire che “tentar non nuoce”, così come si potrebbe dire che quella di Magna e dei loro alquanto improbabili alleati russi è destinata a rivelarsi come la più classica delle vittorie di Pirro, ma poiché sono portato per mestiere a ritenere che la Storia non si fa né con i se, né tanto meno con i ma, spero proprio che il bravo Marchionne disponga di un provvidenziale piano B, anche se mi permetto modestamente e sommessamente di suggerire di evitare con cura l’altrettanto ostica avventura francese in favore di quella che vedrebbe a oggetto le interessanti quote di mercato tuttora appannaggio della General Motors nei diversi paesi dell’America Latina, paesi forse non del tutto stabili politicamente, ma forse anche per questo molto propensi a vedere rafforzarsi la presenza industriale di un’azienda che è pur sempre basata in un paese europeo che continua a essere poco più di un’espressione geografica!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog