giovedì 23 luglio 2009

Ma quelli delle banche USA sono profitti o perdite?


La stagione delle trimestrali a stelle e strisce si è arricchita ieri di nuove e importanti comunicazioni provenienti dal fronte delle banche, con la diffusione dei risultati relativi al secondo trimestre di Wells Fargo e della ex investment bank Morgan Stanley, risultati che non sono piaciuti molto agli investitori sia nel caso della prima che ha segnalato utili in forte crescita (ma anche una vera e propria esplosione dei non performing loans), sia in quello della seconda che ha comunicato una perdita di 1,2 miliardi di dollari, un risultato che mal si concilia con la decisione di restituire i 10 miliardi di dollari ricevuti dal TARP alla fine dell’anno scorso.

Rinviando i miei lettori alla recente puntata del Diario della crisi finanziaria nella quale, sin dal titolo, mi chiedevo se i profitti segnalati dalle principali banche statunitensi non fossero in realtà delle perdite, trovo molto disinvolto il modo seguito da Wells Fargo nel comunicare i propri risultati senza, come sarebbe doveroso, tenere conto del fatto che negli stessi, dal gennaio del 2009, sono inclusi anche i flussi di ricavi originati dall’acquisita Wachovia Bank, una banca che si collocava al quarto posto tra le banche ordinarie statunitensi, una commistione che non può certo considerarsi sanata con l’indicazione che il 40 per cento circa dei ricavi provengono dall’entità acquisita.

Ma questo sarebbe ancora un peccato veniale, in quanto considero molto più grave che, a fronte di un incremento del 50 per cento circa dei non performing loans accompagnato dalla previsione di un ulteriore deterioramento della qualità del credito nei mesi a venire fatta direttamente dal massimo responsabile dell’attività creditizia di Wells Fargo, i vertici della banca abbiano deciso di distribuire un utile tutt’altro che disprezzabile, invece di tenere ancora per un po’ a stecchetto gli azionisti in cambio di una maggiore pulizia del bilancio contestuale all’ulteriore rafforzamento delle poste di bilancio previste propri per far fronte a rischi futuri considerati pressoché certi da un’autorevole fonte interna.

Ma mentre nel caso di Wells Fargo siamo di fronte a, seppur opinabili, scelte relative ai criteri più o meno prudenziali nella rappresentazione dei fatti di bilancio, molto più gravi sono le perplessità rispetto alle stesse scelte gestionali assunte dai vertici di quella Morgan Stanley che, insieme alla potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, è riuscita a sopravvivere alla scomparsa o alla confluenza in altre entità delle altre componenti dell’un tempo magico gruppo delle Big Five dell’investment banking statunitense, scelte che si traducono in un’intensificazione molto significativa di quell’attività di trading che è poi, in realtà, né più né meno che uno scommettere sull’andamento di indici azionari, materie prime, valute convertibili, un gioco che ha fruttato, anche grazie alla drastica riduzione del numero di partecipanti, a Morgan Stanley poco meno di un miliardo di dollari, ma che non è stato in grado di compensare i disastrosi effetti dell’esposizione della banca nel mortgage e delle sue attività creditizie più in generale.

E dire che Morgan Stanley aveva subito un attento scrutinio delle autorità monetarie che, anche sulla base dello stress test, autorità che avrebbero dovuto sconsigliare il frettoloso rimborso degli aiuti pubblici ricevuti, nonché inviare, seppure in via riservata, chiari segnali di insoddisfazione per il fatto che la trasformazione in holding bancaria verificatasi alla fine dello scorso anno non ha prodotto alcuna significativa modifica del modus operandi dell’entità in questione e della stessa Goldman Sachs, che, al pari delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, continuano a giocare nello stesso identico modo seguito in passato!