lunedì 6 luglio 2009

Verso un nuovo sistema monetario internazionale? (seconda parte)


Ridotta davvero all’osso, la questione relativa alla necessità di un nuovo sistema valutario internazionale è rappresentata dalla sempre più evidente insostenibilità di una situazione che vede materie prime e manufatti, nonché aziende industriali o di servizi, immobili e terreni agricoli, scambiati in cambio di dollari statunitensi dal valore sempre più incerto in prospettiva.

Il concetto precedente può essere espresso anche in altri termini, in quanto è stata altrettanto insostenibile la pretesa degli Stati Uniti d’America di non pagare in alcun modo il ‘costo’ della globalizzazione, mantenendo, almeno sino alla metà del 2007, livelli di reddito pro capite, tassi di occupazione e livelli di consumo del tutto incompatibili con la nuova divisione internazionale del lavoro, con l’evidente perdita di competitività dei propri prodotti/servizi, con la crescente di pendenza in termini di materie prime energetiche e non, nonché con la stessa perdita dell’autosufficenza agroalimentare.

Tutto questo non sarebbe stato assolutamente possibile se non valesse una sorta di extraterritorialità di fatto degli USA assolutamente rispettata, almeno sino a oggi, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, nonché dalle sempre più screditate agenzie di rating che hanno ribadito anche di recente di non avere all’ordine del giorno la possibilità di una revisione del massimo rating attribuito a una nazione che sarà anche la più armata del pianeta, ma che è di fatto tecnicamente fallita!

Basterebbe, peraltro, dare un’occhiata a un eloquente rapporto dell’Associated Press dedicato alla non marginale questione del debito pubblico a stelle e strisce, giunto, secondo quanto riportava implacabilmente mercoledì scorso il debt clock situato nei pressi di Times Square, alla cifra di 11.518.472.742.288 dollari (quando è stato inaugurato, nel 1989, lo stesso meccanismo indicava la cifra di 2.700 miliardi di dollari, meno di un quarto di quella attuale), mentre il deficit per l’anno in corso è ufficialmente stimato in 1.850 miliardi di dollari e il servizio del debito a 452 miliardi di dollari, balzando alla quarta posizione nella graduatoria dei capitoli di spesa pubblica, dopo Medicare-Medicaid, Social Security e Difesa.

In una pausa dell’efficacia della pozione che lo trasforma in Bernspan, Ben Bernanke ha molto saggiamente osservato che “fino a che non dimostreremo un forte impegno in termini di sostenibilità fiscale nel lungo termine, non avremo né stabilità finanziaria, né una sana crescita economica”, peccato che, appena uscito dalle aule del Congresso dove aveva pronunciato le sagge e ponderate parole, ha continuato imperterrito a inondare di liquidità a tasso zero le molto malmesse banche statunitensi, acquisire i titoli più o meno tossici della finanza strutturata e sostituirsi alle banche nell’acquisizione di quelle Commercial Papers essenziali per il funzionamento delle corporations statunitensi sopravvissute ai marosi della tempesta perfetta e al sempre più feroce credit crunch in corso.

Quello che non è del tutto chiaro alla maggior parte degli abitanti del pianeta è, invece, seguito con grande attenzione dei creditori dell’azienda America che sanno benissimo di essere seduti su un barile pieno di polvere da sparo circondato dal fuoco e che stanno studiando giorno e notte una possibile exit strategy, ognuno temendo che l’altro possa decidere i imitare il defunto Generale De Grulle che chiese e ottenne la conversione di un miliardo di dollari in oro poche settimane prima della decisione di Nixon di rinunciare allo scudo rappresentato da quel relitto barbarico!