venerdì 29 ottobre 2010

Le banche USA fanno man bassa di case!

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Con un po’ di ritardo, emergono le evidenze statistiche degli effetti della frenetica attività nel terzo trimestre di quest’anno dei robo-signers, quei dipendenti delle maggiori banche e finanziarie che firmavano, molto spesso senza nemmeno leggerli, i documenti che consentivano l’apertura delle procedure di foreclosure che normalmente si chiudono con un esproprio, pratiche complesse che ognuno di loro sfornava al ritmo di centinaia al giorno.

Come è noto, dopo uno stop durato pochi giorni, Bank of America, GMAC e compagnia cantante hanno ripreso a istruire le pratiche, incuranti delle indagini dei procuratori generali di 50 Stati, e di quelle di numerosi enti federali, inclusa la Federal Reserve, nonché dell’ovvia prevenzione dei giudici chiamati ad esprimersi sulla liceità della richiesta di esproprio e successiva vendita all’asta, passaggio giudiziale obbligatorio in 23 Stati.

La novità che emerge dalle statistiche relative alle procedure di foreclosure nel corso del periodo luglio-settembre, è rappresentata dal fatto che il fenomeno sta debordando da quei quattro Stati che hanno rappresentato per oltre due anni l’epicentro del fenomeno e cioè California, Nevada, Florida e Arizona (che rappresentano 19 delle 20 aree metropolitane maggiormente colpite dalle procedure di esproprio), determinando il fatto che tassi di incremento notevoli sullo stesso trimestre del 2009 stanno riguardando 133 aree metropolitane su 206.

Nell’area intorno a Seattle, l’incremento delle pratiche volte ad ottenere l’esproprio sono balzate del 71 per cento rispetto allo steso periodo dell’anno precedente, ma incrementi del 35 per cento hanno riguardato l’area metropolitana di Chicago, l’area di Houston registra incrementi del 26 per cento, quella di Detroit del 23 per cento e quella di Atlanta del 20 per cento.

Per avere un’idea delle dimensioni del fenomeno basti pensare che le banche hanno espropriato della loro casa di abitazione 816 mila famiglie nei primi nove mesi dell’anno in corso e dovrebbero agevolmente raggiungere e superare la soglia di un milione entro la fine dell’anno.

Si tratta con tutta evidenza di cifre da allarme sociale e che fanno riflettere sulla decisione di Obama di schierarsi sul fronte di quanti si sono opposti ad una moratoria sulle procedure, una moratoria che avrebbe dato il tempo di comprendere meglio cosa è realmente accaduto quest’estate, ma forse anche nei mesi precedenti, negli uffici delle banche incaricati di dare il via alle procedure di esproprio.

Nel frattempo si scopre che aumenta il numero degli investitori che hanno acquistato bonds rappresentativi di mutui immobiliari che stanno valutando, dopo la richiesta di riacquisto per 49 miliardi di dollari avanzata nei confronti di Bank of America, di avanzare analoga richiesta alle banche che hanno venduto loro i titoli!

giovedì 28 ottobre 2010

Un pittbull azzanna Bank of America!


Reduce dalla chiusura di lucrose transazioni riguardanti discutibili passaggi di titoli della finanza strutturata aventi come sottostante mutui residenziali o contratti di altro genere, una certa avvocatessa Connor, definita da quanti la conoscono il pitbull, ha inviato a Bank of America e a un intermediario una lettera nella quale chiede che BofA si riprenda 49 miliardi di bonds collegati a mutui erogati dalla acquisita Countrywide.

Al momento, né Bofa né l’intermediario hanno risposto alla lettera della Connor, ma, guardando il file dei successi della donna che passa il tempo libero ad insegnare catechismo ai bambini e quello lavorativo a fare le pulci ai mastodontici contratti in uso nelle transazioni finanziarie, certamente un po’di inquietudine sarà serpeggiata ai piani alti delle due istituzioni, ree, secondo quanti hanno dato mandato allo studio del quale la Connor fa parte di aver rifilato loro una patacca più o meno ben confezionata.

Ho trascorso oltre due a sostenere che la montagna di titoli della finanza strutturata non sarebbe scomparsa di incanto, così come credo che l’operazione in esame, un’operazione che potrebbe chiudersi in tempi brevi con una transazione o in tempi lunghi per via giudiziale, non sia che una delle tantissime messe in piedi dalle banche per traslare su altri il rischio, un rischio che nessuno come loro era in grado di prezzare appieno.

Bank of America da un lato e l’avvocato dall’altro sanno benissimo che si tratta di una vertenza pilota di enorme importanza e che è necessario ricorrere a tutti i mezzi per evitare di soccombere, la prima perché sa che se ne aprirebbero immediatamente moltissime altre, mentre la Connor è perfettamente consapevole del fatto che, vinta questa, la fila dei clienti alla porta del suo studio si allungherebbe a dismisura.

Nel frattempo, il mondo finanziario si è molto preoccupato ieri per il rallentamento della crescita della Corea del Sud nel terzo trimestre, un incremento dello 0,7 per cento pari alla metà di quella segnalata nel secondo trimestre che, a sua volta, aveva già segnalato una frenata rispetto al primo quarto dell’anno.

Come avevo segnalato in una precedente puntata del Diario della crisi finanziaria, anche la crescita del colosso cinese ha dovuto abbandonare le due cifre, fermandosi al di sotto del 10 per cento (9,6) e sia nel caso coreano che in quello cinese si segnala un rallentamento della crescita delle esportazioni.

Ma la più forte preoccupazione, con relativa flessione dei mercati azionari, l’ha innescata ieri un articolo del solitamente informato Wall Street Journal che pronosticava un approccio molto graduale e moderato nell’entità da parte della Federal Reserve, con acquisti di titoli per centinaia e non per migliaia di miliardi di dollari, acquisti, oltretutto, diluiti nel tempo.


mercoledì 27 ottobre 2010

Volerà davvero l'azionario a stelle e strisce?


Il notevole afflusso di capitali stranieri verso il dollaro spiega almeno in parte l’andamento dei tre principali indici statunitensi, con il Dow che fa l’occhietto a quota 11.200 e il Nasdaq che mantiene alquanto agevolmente quella posta a 2.500 punti, ma sembra in salute anche il ben più rappresentativo Standard & Poor’s 500 che è oramai quasi duecento punti sopra la fatidica quota mille.

Certo, siamo distanti di oltre il 25 per cento dai massimi del Dow e del 27 per cento da quelli dello S&P 500, mentre il Nasdaq dovrebbe raddoppiare per ritrovare quella quota 5 mila toccata nel pieno della bolla dei titoli tecnologici, eppure il quantitative easing abbondantemente praticato dalla Federal Reserve in questi ultimi anni, nonché quello minacciato per un prossimo, molto prossimo, futuro potrebbe far dirottare ingenti quantità di liquidità dai titoli di Stato a stelle e strisce verso l’azionario statunitense, anche perché già a questi livelli del dollaro è caro accostarsi ai titoli europei, asiatici o a quelli dei paesi latino americani.

C’è sostanzialmente questo dietro le previsioni degli strategist delle banche di investimento e delle banche più o meno globali, una previsione che potrebbe trovare delle controindicazioni in eventuali problemi per i maggiori protagonisti del mercato finanziario a stelle e strisce, problemi legati al fatto che non si possono portare all’infinito quelle montagne di titoli della finanza strutturata che ancora sono presenti al di sopra o al di sotto delle loro rispettive linee di bilancio, così come non sembrano del tutto risolti i problemi delle case automobilistiche e delle aziende che producono generi di più o meno largo consumo.

Quella dei titoli della finanza strutturata e di una domanda languente è una questione al momento irrisolta ma che si accompagna alla situazione del settore immobiliare, un settore che ha vissuto la peggiore estate dell’ultimo quindicennio, ma che ha visto a settembre un balzo in avanti delle vendite di case esistenti in larga parte spiegato dall’acquisto di case pignorate attraverso procedure che sono adesso sotto il vaglio dei procuratori generali di cinquanta Stati, di organismi quali la Federal Deposit Insurance Corporation, la Federal Reserve e il Federal Bureau of Investigation, nonché di tutti i giudici che devono vagliare sugli espropri caso per caso.

Secondo molti agenti immobiliari interpellati dalle agenzie di stampa, vi è molto timore tra chi ha acquistato le case all’asta in questi mesi, così come vi è molta paura tra quelli che si accingevano a farlo e si sono ritratti dopo l’ampia copertura mediatica della vicenda che riguarda centinaia di migliaia di famiglie americane in attesa di esproprio della propria abitazione, oltre centomila pratiche di foreclosure sono nelle mani della sola Bank of America che, non a caso, continua a perdere terreno in borsa anche in giornate positive come quella di martedì.

martedì 26 ottobre 2010

Piccole banche USA falliscono!


Dopo essermi occupato nelle ultime due puntate del Diario della crisi finanziaria dei massimi sistemi, a partire dalla proposta di Geithner al G20 al quantitative easing messo in atto dalla Federal Reserve con correlative contromosse da parte delle altre banche centrali e investitori sparsi, ritengo utile tornare a occuparmi delle cose di tutti i giorni, quelle che maggiormente interessano le persone in carne e ossa, come l’ennesima ondata di chiusure di banche piccole e medie negli Stati Uniti d’America.

Nell’ultimo fine settimana, infatti, la Federal Deposit Insurance Corporation ha decretato la chiusura di sette banche con sede in Florida, Georgia, Kansas, Alabama e Illinois, sei delle quali caratterizzate da un volume di total assets oscillante di poco attorno ai 100 milioni di dollari, mentre una, la Hillcrest Bank con sede a Overland Park nel Kansas aveva un giro di affari pari a 1,6 miliardi di dollari.

Con queste ultime chiusure, il numero delle banche che hanno chiuso i battenti (per riaprirli immediatamente dopo con lo stesso nome o con quello della banca acquirente) ha raggiunto la cifra di 139, contro le 140 che hanno caratterizzato l’anno di grazia 2009, ma inquieta che, alla stessa data, le banche USA costrette alla chiusura erano stato soltanto 106, il che fa prevedere che il conto del 2010 potrebbe tranquillamente chiudere in un range compreso tra le 170 e le 180 banche che cambiano proprietario, il livello più elevato dal 1992 anno che vide centinaia di chiusura a causa della crisi delle casse di risparmio a stelle e strisce.

Tutto questo ha dei costi per il sistema, in particolare per la FDIC che ha speso 30 miliardi di dollari nel 2009 ed è andata in deficit per oltre 15 miliardi di dollari al 30 giugno dell’anno scorso, ma anche di preoccupazione per i depositanti agiati che devono pregare per ottenere quanto eccede i 250 mila dollari garantiti dalla FDIC, per non parlare poi della scomparsa di banche locali radicate nel territorio assorbite da banche spesso basate altrove e che a quei territori potrebbero prestare minore attenzione.

Dalle 3 banche fallite nel 2007 si è passati alle 25 del 2008, ma il vero picco è stato toccato nel 2009 con 140 banche fallite, ma il problema è rappresentato dalle banche eufemisticamente sotto osservazione da parte della FDIC e giunte nel secondo trimestre di quest’anno al livello record di 829 (erano 775 tre mesi prima), con costi di salvataggio previsti tra il 2010 e il 2014 in 52 miliardi di dollari.

lunedì 25 ottobre 2010

Sarà la Cina a restare con il cerino acceso?

E dire che ci avevo quasi creduto al fatto che gli Stati Uniti d’America volessero cambiare le regole del commercio internazionale e che lo volessero fare rispolverando addirittura la vecchia idea di John Maynard Keynes di porre rigidi limiti quantitativi agli avanzi e ai disavanzi, puntando, pena severe sanzioni, a portarli addirittura a zero.

Ovviamente, la proposta di Timothy Geithner, ministro del Tesoro di Obama, ha ricevuto una sonora pernacchia, anzi il G20 ha partorito una proposta di combattere le svalutazioni competitive, quasi non si sapesse che il vicino di tavola di Tim, l’ineffabile Bernspan, sta praticando una cosa che si chiama quantitative easing, acquistando titoli di stato americani a breve e a lunga scadenza e lo fa stampando moneta a rotta di collo, una manovra che determina l’aumento del prezzo dei titoli e una correlativa riduzione dei rendimenti, così come dovrebbe portare a livelli ancora più bassi il valore del biglietto verde.

La reazione a tale manovra a stelle e strisce è stata un afflusso di capitali senza precedenti verso i paesi emergenti, un fenomeno ben testimoniato dall’innalzamento degli indici delle borse di quei paesi e dal balzo in avanti del cambio delle rispettive valute.

Pensate voi a come devono stare in questo le autorità monetarie della repubblica popolare cinese, sedute su una montagna di riserve convertibili pari a 2.650 miliardi di dollari, gran parte dei quali rappresentati proprio da depositi in dollari e da titoli del Tesoro statunitense suddivisi tra scadenze a breve e a lungo e lunghissimo termine, persone che in questo momento sono letteralmente terrorizzate dalla possibilità di una svalutazione verticale del dollaro che li porterebbe ad avere titoli che rendono sempre meno e ingenti perdite in conto capitale determinate dal cambio del dollaro rispetto alle altre due principali valute del mondo, euro e yen, una svalutazione in parte già avvenuta nei confronti della valuta nipponica e con ulteriori margini di deprezzamento nei confronti di quella europea.

Ma, come in ogni gioco complesso che si rispetti, non mancano le contromosse e banche centrali e singoli investitori stranieri stanno dando letteralmente l’assalto ai Treasury Bonds e ai Treasury Bills (con acquisti quantificabili in poco meno di 2.000 miliardi di dollari), contribuendo così a deprimerne i rendimenti e a rialzarne i corsi e producendo una controspinta sul valore del dollaro, determinando così una sorta di corsa al massacro nella quale qualcuno rischia di rimanere inevitabilmente con il cerino acceso e molti pensano che a trovarsi in quella triste condizione sarà proprio la Cina!


sabato 23 ottobre 2010

La vendetta postuma di Keynes!

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La partita che Timothy Geithner, in tandem con Bernspan, sta giocando fuori casa nella ospitale Corea del Sud è certamente una partita dura, non fosse altro che si tratta di un consesso come il G20 dove gli esportatori abituali tedeschi e giapponesi possono contare sul sostegno dei paesi del Bric (Brasile, Russia, India e Cina), nonché sull’Arabia Saudita, un consesso veramente difficile per la sua proposta di limitare gli avanzi e i disavanzi commerciali ad un massimo del 4 per cento del prodotto interno lordo, una proposta che rappresenterebbe un colpo al cuore di Giappone, Cina e Arabia Saudita, ma metterebbe in serie difficoltà anche gli altri paesi che presentano da tempo un avanzo strutturale nei conti con l’estero.

Premettendo che la mia conoscenza della lettera inviata da Geithner agli altri 19 partecipanti di diritto, più Spagna e Olanda invitati permanenti, si basa sui reportage delle agenzie di stampa internazionali (ricche, più che di dettagli, delle reazioni alquanto stizzite dei ministri delle finanze dei paesi maggiormente colpiti), devo dire l’idea ricalca molto da vicino quella proposta a Bretton Woods nel 1944 da John Maynard Keynes e sonoramente bocciata da un lontano predecessore di Thimoty, tale White.

Certo quella della International Clearing Union era una proposta abbastanza diversa perché prevedeva una banca mondiale che avrebbe dovuto vigilare sugli scambi che sarebbero dovuti avvenire in una moneta denominata bancor caratterizzata da cambi fissi con tutte le altre valute, ogni nazione avrebbe avuto un conto che avrebbe visto addizioni (le esportazioni) e sottrazioni (le importazioni) e avrebbe dovuto avere a fine anno un saldo zero. La penalità prevista in caso di surplus eccessivi consisteva nel dirottamento in un conto di riserva di una percentuale dell’avanzo o del disavanzo.

Non essendo stata approvata, non sapremo mai quale sarebbe stata la soglia tollerata di spostamento dallo zero e, soprattutto per quanto tempo sarebbero stati tollerati scostamenti, ma è certo che il varo dell’ICU avrebbe impedito o reso meno incisive le turbolenze valutarie che stiamo vivendo dall’abbandono da parte degli Stati Uniti d’America della convertibilità del dollaro in oro al prezzo prefissato di 35 dollari per oncia.

Lo spostamento previsto da Geithner nel 4 per cento è certamente molto più ampio di quello ipotizzato da Keynes, ma è evidente, come traspare dalle parole del ministro delle finanze canadese, che l’alternativa all’accoglimento della proposta statunitense sarebbe quello di una svalutazione competitiva del dollaro dell’ordine di quella che avvenne dopo il G3 (USA, Germania e Giappone) di New York dei primi anni Settanta, meglio noto come il Summit del Plaza.

venerdì 22 ottobre 2010

Se piange il trader


Hanno destato una certa sorpresa i dati del terzo trimestre del Credit Suisse, una delle banche globali che ha maggiormente retto agli alti marosi della tempesta perfetta che io continuo a ritenere ancora viva e vegeta ad oltre tre anni dal suo avvio nell’agosto del 2007, una banca che ha certamente vissuto molte meno traversie della sua rivale e conterranea UBS, banca notoriamente afflitta dalle ingenti perdite nell’ampio settore della finanza e colpita sul piano reputazionale per il suo ruolo nell’evasione fiscale di numerosi suoi clienti statunitensi.

Nel trimestre che si è chiuso il 30 settembre, il Credit Suisse ha riportato un utile di 609 milioni di franchi svizzeri, in calo del 74 per cento nei confronti dei 2,35 miliardi di franchi conseguiti nel terzo trimestre del 2009, ma quello che più ha stupito gli analisti è rappresentato dall’ermeticità delle spiegazioni fornite dal CEO, Brady Dougan, che, invece di fornire spiegazioni di una performance inferiore alle più pessimistiche stime degli esperti, ha preferito sottolineare la bontà del modello produttivo, un modello che, a suo dire, non mancherà di fornire grandi soddisfazioni agli azionisti della banca elvetica.

Per ammissione del Chief Financial Officer della banca elvetica, buona parte del è legata a risultati nettamente sotto le attese del trading che si accompagnano a maggiori costi della divisione di Corporate & Investment Banking a loro dovuti ad una aggressiva politica di assunzioni e ad un aumento dei bonus, per non parlare dei maggiori accantonamenti legati alle indicazioni dei regolatori che appaiono addirittura più restrittive di quelle previste a livello internazionale che lo saranno ancora di più a partire dal 2012.

Quello dei modesti risultati nel settore del trading in azioni, cambi e materie prime è un fenomeno che è risultato evidente nei bilanci del terzo trimestre delle banche statunitensi, Goldman Sachs e Morgan Stanley in testa, un fenomeno che è in larga parte dovuto alla minore volatilità dei mercati, volatilità più o meno spontanea che è il propellente per gli utili miliardari delle banche globali e delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche ad operatività sovranazionale e al proposito sarà interessante vedere i bilanci per il terzo trimestre delle banche basate nell’area dell’euro.

Dalla Cina viene, nel frattempo, qualche segnale di rallentamento con la crescita nel terzo trimestre pari a “solo” il 9,6 per cento contro il 10,3 registrato nel secondo e l’11,9 nel primo e, ancor di più, la decisione della banca centrale cinese di alzare, per la prima volta in tre anni, i tassi di riferimento, due eventi che non impediranno ai partecipanti al prossimo vertice internazionale in programma a Seul di spingere sui vertici cinesi per un adeguamento al rialzo dello yuan.

giovedì 21 ottobre 2010

Quello dei mutui rischia di essere il vietnam delle banche a stelle e strisce!


Dopo la batosta subita dimostrandosi l’unica tra le grandi banche a presentare i conti del terzo trimestre in rosso e per poco meno di 8 miliardi di dollari, Bank of America è in procinto di affrontare un’altra grana rappresentata dalla richiesta di un gruppo di investitori che vuole che la banca riacquisti bonds legati ai mutui dell’acquisita Countrywide per poco meno di 50 miliardi di dollari, richiesta basata sul fatto che Countrywide non avrebbe ottemperato alla richiesta di informazioni sulla qualità dei mutui sottostanti.

Non so se la banca vorrà sottoporsi ad un giudizio per stabilire la liceità o meno della richiesta proprio nel momento in cui è sotto i riflettori per lo scandalo dei documenti sfornati a ritmi da catena di montaggio dai suoi robo-signers.

Fatto sta che Bofa, GMAC e le altre banche e finanziarie coinvolte nello scandalo hanno deciso di affrontare il giudizio di Dio nelle aule dei tribunali dei 23 Stati che prevedono un passaggio giudiziario per gli espropri, il tutto mentre, oltre alle indagini coordinate dei 50 procuratori generali di altrettanti Stati, si è appreso ieri che è sceso in campo anche il Federal Bureau of Investigation, per non parlare del Congresso che ha in animo di indire una serie di audizioni.

Il mercato ieri ha dimostrato di non fare troppo affidamento sui conti di BofA al netto delle poste straordinarie, anche perché identiche previsioni valevano anche per le immediate concorrenti senza costringere le stesse all’onta del rosso, anche se va detto per onestà che nessuna delle concorrenti ha il carico di mutui di BofA dopo la forzata acquisizione di Countrywide.

Proprio ieri un’altra delle maggiori banche americane, la Wells Fargo, ha annunciati di aver conseguito utili nel terzo trimestre per 3,15 miliardi di dollari, contro i 2,65 miliardi registrati nel terzo trimestre dello scorso anno, mentre, in linea con quanto annunciato dalle altre grandi banche, le perdite su crediti si sono dimezzate, passando dagli oltre 6 miliardi di dollari del terzo trimestre 2009 ai 3,45 miliardi del terzo trimestre di quest’anno.

Anche una delle due superstiti del gruppo delle Big Five, l’ex investment bank Morgan Stanley ha chiuso il trimestre in rosso per 91 milioni di dollari a causa di poste straordinarie per poco meno di un miliardo di dollari, contro un utile di 313 milioni di dollari nello stesso trimestre dell'anno scorso.

mercoledì 20 ottobre 2010

BofA perde e Goldman guadagna!


Il mercato ha salutato con favore la decisione presa l’altro ieri dal colosso creditizio Bank of America di riprendere l’esame delle pratiche di esproprio, sia pure limitatamente a quei 23 Stati nei quali è previsto l’esame da parte di un giudice della richiesta della banca di escutere la propria garanzia.

Questa notizia non può non farmi pensare all’entusiasmo con il quale gli antichi romani assistevano ai giochi nel circo, spasmodicamente aspettando che l’imperatore decretasse con il pollice verso la morte di un gladiatore, mentre per i cristiani non vi era bisogno neanche di quella regale approvazione!

Il destro alla decisione di BofA è stato dato dalle dichiarazioni di numerosi esponenti federali, incluso (sic) il ministro del Tesoro, Thimoty Geithner, che hanno sostenuto che il blocco delle procedure di esproprio non si sarebbe trasformato in alcun modo in una moratoria, dichiarazioni che sembrano escludere anche che il Congresso possa adottare in via d’urgenza una simile misura, dichiarazioni che renderanno meno piacevole il road show che i coniugi Obama stanno effettuando in tutto il paese per risollevare le traballanti sorti degli esponenti democratici in lizza nelle elezioni di medio termine.

Ma il ministro del Tesoro ha fatto ridere il mondo intero, negando che fosse allo studio una svalutazione del dollaro a fini competitivi, una dichiarazione che riecheggia quella di tanti suoi predecessori che si sgolavano a parlare della necessità di uno strong dollar mentre facevano di tutto e di più per indebolirlo.

Comunque sia, in flessione per la prima parte della seduta, l’azione di BofA si è così prontamente ripresa ed ha chiuso a 12,34 dollari con un rialzo di oltre il 3 per cento, anche se il basso volume degli scambi denota come vi sia ancora molta cautela da parte degli investitori in attesa dei dati relativi al terzo trimestre e che sono stati resi noti ieri, così come va ricordato che, non più tardi di sei mesi orsono, la stessa azione ha fatto l’occhietto alla soglia dei 20 dollari, per non parlare di quello che quotava alla vigilia della tempesta perfetta.

E i risultati sono puntualmente arrivati, testimoniando che Bank of America ha perso nel terzo trimestre 7,78 miliardi di dollari, attribuiti alle nuove previsioni legislative in materia di carte di credito e di debito (una messa a perdita per oltre 10 miliardi di dollari), mentre al netto di tale posta straordinaria BofA avrebbe guadagnato 3,1 miliardi in parte a causa del dimezzamento delle perdite su crediti, passate dagli 11,71 miliardi di dollari dal secondo trimestre ai 5,4 miliardi del terzo, una flessione che sta a indicare che anche la gestione al netto della posta straordinaria continua a macinare perdite miliardarie, ma tutto questo è troppo complicato per gli investitori!

Poco dopo ha annunciato i suoi risultati per lo stesso trimestre la potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs che ha annunciato utili per 1,74 miliardi di dollari, in netto calo rispetto allo stesso trimestre dell’anno scorso, quando ne aveva guadagnati oltre 3 di miliardi, un risultato inficiato da ricavi in calo di oltre un terzo nel trading su bond, valute e materie prime.

martedì 19 ottobre 2010

E' già finito il ciclo delle scorte?

So bene che tra le due notizie di ieri la maggior parte degli analisti preferirà occuparsi degli utili leggermente sopra le attese conseguiti da Citigroup nel terzo trimestre dell’anno, sbrigherò anch’io quindi al più presto la pratica dicendo che ha guadagnato 2,15 miliardi di dollari, attingendo però a riserve per poco meno di 2 miliardi di dollari, il che sta a dire che, escludendo il fieno messo in cascina in precedenza, il risultato del trimestre in esame sarebbe pari a poco più di 150 milioni di dollari (sempre meglio della perdita di oltre 3 miliardi di dollari patita nello stesso trimestre del 2009).

Mentre Citi brillava sui listini, non poteva non farsi notare l’andamento controcorrente di Bank of America che, almeno nella prima ora di contrattazione, continuava a perdere terreno come oramai fa da alcune sedute a causa del pasticcio delle procedure di esproprio fatte con ritmi di catena di montaggio, procedure piene di errori e/o omissioni, e sono molto curioso di vedere che conti presenterà per il terzo trimestre!

La notizia che, invece, mi ha colpito è quella relativa alla produzione industriale nel mese di settembre, caduta dello 0,2 per cento, una flessione che porta il trimestre luglio-settembre ad una crescita del 4,8 per cento, contro ritmi pari al 7 per cento registrati sia nel primo che nel secondo trimestre di quest’anno, ma anche una flessione che rappresenta la seconda battuta di arresto da quel giugno del 2009 che viene visto dagli ottimisti a un tanto al chilo come la data di uscita da quella che loro stessi definiscono la Grande Depressione.

Mi spiace sinceramente che le evidenze statistiche di questa ripresa siano cominciate ad arrivare più o meno quando ho deciso di prendere una pausa dal mio impegno quotidiano come cronista della tempesta perfetta, anche perché avrei ricordato quel fenomeno tutt’altro che sconosciuto che prende il nome di ciclo delle scorte, un ciclo che va di pari passo con l’esigenza degli imprenditori che non hanno deciso di chiudere i battenti di mandare comunque avanti le linee di produzione in attesa di tempi migliori, due fenomeni che tuttavia incontrano un limite ove la domanda non riprenda ed è appunto quello che verosimilmente sta accadendo adesso.

Ma l’estate è stata rivelatrice anche nel già di per sé disastro settore immobiliare, una stagione che è stata definita dagli addetti ai lavori la peggiore dell’ultimo decennio, e già che il 2008 e il 2009 non sono certo stati anni splendidi, commenti che avvengono in concomitanza della diffusione dell’indice che rivela gli umori degli operatori del settore di settore che nel mese di settembre è salito a 16 dopo essere stato a 13 sia in luglio che in agosto (come tutti gli indici della specie, anche questo indica espansione a livelli sopra 50 e recessione al di sotto di tale valore).

Gli stessi operatori continuano a vedere prospettive negative dovute all’elevato tasso di disoccupazione, alla lenta crescita dei posti di lavoro e alle politiche restrittive adottate dalle banche in materia di credito, tutti elementi che non inducono certo le persone ad acquistare case, tutte valutazioni negative che sembrerebbero contrastare con il ritorno dell’indice al livello di giugno, ma che sono facilmente spiegabili con un minimo di attività nel settore dopo la stasi pressoché totale registrata in luglio e in agosto.

lunedì 18 ottobre 2010

Le conseguenze sociali della tempesta perfetta!

Nei due anni circa in cui ho pubblicato quotidianamente le puntate del Diario della crisi finanziarie, mi è stato rimproverato più volte di occuparmi prevalentemente degli Stati Uniti d’America, dedicando minore attenzione all’Europa e, in particolare, all’Italia, un’accusa solo parzialmente fondata, visto che ho dedicato al nostro Paese e al Vecchio Continente non meno di cento puntate, ma il problema è rappresentato dal fatto che la tempesta perfetta ha origine dagli USA ed è dall’evoluzione delle cose in quella grande nazione che potremo un giorno dire se è terminata oppure no!

Ma quello che vi è di meraviglioso in quella nazione è la gran messe di statistiche e l’accuratezza con cui la stampa va alla ricerca delle cause dei fenomeni che sono all’attenzione dell’opinione pubblica, spinti da motivi concorrenziali, dalla loro linea politica e, almeno in alcuni casi, da ambedue queste ragioni.

Non fa eccezioni il caso del blocco delle procedure di foreclosure, cioè l’avvio di quei procedimenti che si concludono, nella maggior parte dei casi, con l’esproprio e la successiva vendita all’asta della casa, come di mostra un eccellente reportage del New York Times che è andato a scovare il caso zero che ha innescato la ribellione dei mutuatari contro le procedure in molti casi disinvolte seguite dalle banche e dalle finanziarie per impossessarsi, spesso a caro prezzo, di case che poi, una volta messe all’asta, spesso non ripagano le spese sostenute dalle banche per portare a termine l’intera procedura.

Il servizio si apre con una foto di un’abitazione indipendente e tutt’altro che di lusso costata alla signora Nicolle Bradbury 75 mila dollari interamente finanziati dalla GMAC, che ha pure fornito la somma necessaria per la ristrutturazione e, in sede di rinegoziazione del mutuo e relativo innalzamento della rata, altro denaro, rate che la signora Bradbury ha smesso di pagare da due anni, avendo perso lei il lavoro, essendosi gravemente ammalato il marito e con due figli in età scolare (16 e 14 anni).

Si trattava di una causa vinta per la GMAC, parlo di causa perché la località in cui vive la signora Bradbury è situata in uno Stato, il Maine, nel quale, come accade in altri 22 Stati, per avviare l’esproprio è necessario andare in giudizio, ma la GMAC aveva fretta e ha affidato la pratica a un funzionario che, senza troppe verifiche ne sforna, come ha lui stesso testimoniato 400 al giorno, divenendo il primo robo-signer ad aver ammesso l’esistenza di tali procedure non proprio accurate.

La fortuna della signora Bradbury è stata quella di rivolgersi a una associazione no profit che le ha assegnato pro bono un legale, Thomas A. Cox, che ha lavorato per anni per una banca locale occupandosi proprio di procedure di foreclosure e relativi espropri, e che ha scoperto subito l’omissione di alcuni passaggi nelle procedure stesse e che è riuscito a farle ammettere in giudizio al dipendente di GMAC, che è stata pure condannata a corrispondergli 27 mila dollari a titolo di onorario, ed è sulla base degli sviluppi di questo caso che le maggiori banche statunitensi si sono viste costrette a bloccare i pignoramenti alcune sull’intero territorio degli USA, altre nei 23 Stati in cui è necessario andare in giudizio, mentre pende la possibilità che si giunga a una moratoria disposta per legge ed è in corso un’indagine federale sulla materia degli espropri!


sabato 16 ottobre 2010

Il mercato punisce le banche a stelle e strisce!

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La notizia del blocco delle procedure di foreclosure non aveva prodotto ieri particolari reazioni da parte degli investitori, in parte perché presi dalle altre notizie della giornata, notizie di tenore positivo, ma anche tranquilli perché le azioni delle banche particolarmente coinvolte quotavano a sconto di un terzo rispetto ai massimi toccati sei mesi orsono.

Ben diversa la situazione odierna, con una discreta pioggia di ordini di vendita su Bank of America, che nella prima parte della seduta ha sfiorato una perdita del 6 per cento, ma sotto pressione anche J.P. Morgan-Chase, uno dei pochi colossi creditizi statunitensi ad aver retto sostanzialmente bene agli alti marosi della tempesta perfetta, con perdite di poco al di sotto dei tre punti percentuali.

Per chi non avesse letto la puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria, va detto che le banche sono state costrette a sospendere le procedure di esproprio dopo che cinquanta procuratori di altrettanti Stati hanno avviato indagini per appurare se risponda al vero che le stesse banche stavano procedendo contro i mutuatari prima della scadenza dei termini che danno loro la possibilità di rivalersi sul debitore insolvente, se non, secondo un’accusa ancora più forte, modificando i termini del contratto al fine di anticipare i tempi.

I lettori più affezionati ricorderanno quante volte ho citato il caso di quegli sventurati che erano stati inviati nelle fabbriche prodotti delle banche di investimento o nelle divisioni di Investment & Corporate Banking delle banche più o meno globali per spacchettare i più fantasiosi tra i titoli della finanza strutturata, ma non pensavo di trovarmi di fronte ai robo-signers persone in grado di mandare alla disperazione svariate centinaia di famiglie al giorno, persone ancora più disperate perché convinte di tenere il passo con i pagamenti.

Eppure, nel lontano autunno del 2007, una donna al vertice di uno dei tanti enti federali, Sheila Bair, aveva capito tutto e aveva proposto che venisse adottato un piano coraggioso per dare modo ai mutuatari di poter rinegoziare i mutui in modo da evitare il pignoramento delle case, un progetto che partiva dalla realistica previsione che mandare milioni di case all’asta avrebbe fatto sprofondare il già traballante mercato immobiliare.

Imperando allora la filosofia conservatrice dei repubblicani, quella che prevede che chi sbaglia paga e neanche i cocci sono suoi, il piano di Sheila fu bocciato e solo più tardi vennero approvati programmi che hanno risolto il problema a poche decine di migliaia di mutuatari, mentre proliferavano le vendite all’asta che hanno provocato il tracollo dei prezzi, bloccando al contempo l’attività edilizia.

In questi giorni c’è, e a mio modesto avviso ha ragioni da vendere, chi dice che le banche dovrebbero ringraziare questo blocco e anche la paventata moratoria, perché rischiano di vedere una riduzione delle insolvenze e un recupero del valore degli immobili, che è poi quello che più dovrebbe interessare loro: un miglioramento della qualità degli assets.


giovedì 14 ottobre 2010

Le banche USA prese con il sorcio in bocca!


Come tutti ricorderanno, la goccia che fece traboccare il vaso di Pandora della finanza strutturata fu rappresentata dai mutui subprime e da altre forme di mutui come i famigerati ARM, un’ondata di default a catena che vide scomparire in un batter d’occhio la quasi totalità delle finanziarie specializzate che avevano rifornito le banche di grande dimensione di carta non avente più quasi nessun valore.

Oggi, a tre anni e rotti di distanza dall’avvio ufficiale della tempesta perfetta, si scopre che le banche superstiti stanno facendo le furbe con decine, se non centinaia, di migliaia di mutuatari accelerando i tempi dei pignoramenti mediante pratiche disinvolte che dalle banche vengono sbrigativamente liquidate come errori, mentre secondo i procuratori di 50 Stati sarebbero pratiche fraudolente.

Il bello è che i mutui in oggetto non sono più solo i subprime o gli ARM, ma mutui concessi a famiglie con buon score creditizio, proprio quelle famiglie destinatarie degli sforzi sia della precedente amministrazione che di quella di Obama volti alla rinegoziazione dei mutui a condizioni che scongiurassero il rischio dei pignoramenti oramai divenuti una vera e propria piaga sociale, procedure forzate che hanno gravi conseguenze sociali e che sono state determinanti nel crollo dei prezzi delle case e nel tracollo dell’attività edilizia a stelle e strisce.

Colta con il sorcio in bocca è stata in particolare Bank of America, forzatamente divenuta leader di quel mercato dei mutui stimato in 11 mila miliardi di dollari tramite l’acquisizione di Countrywide, con il risultato che la banca ha bloccato i pignoramenti negli stessi cinquanta Stati che hanno avviato l’azione giudiziaria, esempio seguito da Gmac Mortgage, mentre l’ineffabile J.P. Morgan-Chase ha limitato lo stop alle pratiche di esproprio agli Stati nei quali è richiesto il permesso del giudice per procedere.

Come per lo scoppio della bolla della finanza strutturata tutta la colpa fu attribuita all’avventatezza se non peggio dei richiedenti i mutui subprime, così ora le banche sotto accusa parlano di errori umano commessi dagli incaricati di avviare le pratiche di esproprio, mentre i procuratori parlano di procedure fraudolente.

La questione degli espropri “facili” rischia di trasformarsi in vero e proprio boomerang per tutte le banche statunitensi, comprese quelle che hanno seguito rigorosamente le regole previste in materia di espropri, in quanto il Congresso, anche in vista delle elezioni di Mid Term, potrebbe approvare in maniera bipartisan la proposta avanzata da esponenti del partito democratico di varare una vera e propria moratoria degli espropri a livello nazionale, mentre non è escluso che sull’intera vicenda si pronunci lo stesso Obama.

D’altra parte, non è un caso se si sta allargando il divario tra le condizioni del mercato finanziario e quelle dell’economia reale negli Stati Uniti d’America, il primo in apparente ripresa, mentre la seconda, quella fatta di donne e uomini in carne e ossa, sempre più in difficoltà.