mercoledì 30 novembre 2016

Una lezione dal passato: "Lehman Brothers is the next?"


A volte, per comprendere meglio le vicende del presente è utile tornare al passato, anche se, travolti dagli alti marosi della terza ondata della Tempesta Perfetta, vi è qualche difficoltà a ricordarsi di quanto accadde quando si era sotto gli altissimi marosi del primo e alquanto ferale sommovimento della prima ondata. Il post che ripropongo è del 6 giugno del 2008, tre mesi prima di quella caldissima notte del settembre dello stesso anno nel quale Bush Jr, Bernspan e Hank Paulson decisero che Lehman Brothers, a dispetto della sua liquidity pool da oltre 200 miliardi di dollari (più o meno quella che vanta oggi il colosso creditizio tedesco dai piedi di argilla Deutsche Bank) fu fatta ignominiosamente fallire, sull'onda della fine della credenza del Too Big to Fail. La sottopongo all'attenzione dei lettori e delle lettrici del Diario della crisi finanziaria perché credo che si tratti di una lezione amara, forse della più amara di quella che verrà ricordata come la più grave crisi di liquidità di sempre!

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Si chiariscono meglio i contorni del nuovo caso britannico, rappresentato dalle difficoltà di un’altra banca prevalentemente specializzata nel mortgage, la Branford&Bingley, che oltre all’annuncio di perdite lorde per 8 miliardi di sterline è stata anche costretta a rendere noto che è tenuta ad onorare l’impegno ad acquistare mutui per oltre 2 miliardi di sterline, il che non produrrà certo benefici effetti sui conti dei trimestri a venire, così come su quelli dell’intero esercizio 2008, sempre ammesso che B&B sia in grado di sopravvivere nella sua attuale configurazione sino alla fine di questo orribile anno bisesto.

Come notavo nella puntata di ieri, l’aggravante è rappresentata dal fatto che è molto difficile per B&B rivolgersi al mercato per raggranellare capitale fresco, né mettersi alla ricerca di un cavaliere bianco, in quanto ciò è già avvenuto a prezzi di assoluto saldo nei mesi scorsi con l’intervento del fondo di investimento statunitense, Texas Pacific Group, che aveva investito la ben misera somma di 179 milioni di sterline per acquisire poco meno di un quarto del capitale della malcapitata entità britannica.

Ma quello che sta veramente scuotendo il mercato finanziario è la notizia delle cattive intenzione di Fitch, l’agenzia di rating che si è già distinta per la severità dei suoi giudizi su Ambac ed il suo braccio armato Ambac Financial, giudizi emessi nel mese di gennaio, e che ora sarebbe intenzionata a rivedere il rating di Lehman Brothers e di altre importanti banche globali poste al di qua ed al di là dell’Atlantico.

Evidentemente la più piccola delle agenzie di rating ha deciso di fornire ai decision makers politici e finanziari del G7 la prova del suo pur tardivo ravvedimento, cosa che forse le varrà un trattamento diverso rispetto a quello che Bernanke, Paulson, Draghi & Company riserveranno alle impenitenti Moody’s e Standard & Poor’s che si ostinano a tenere in osservazione le maggiori entità del mercato finanziario globale sino al giorno dopo del loro, speriamo sinceramente evitabile, fallimento.

Sarà un caso, ma si assiste sui principali mercati europei ad un significativo fly to qualità che privilegia, ad esempio in Gran Bretagna, la alquanto ripulita Hong Kong Shangai Banking Corporation ai danni delle molto malmesse Barclays e Royal Bank of Scotland, le due banche che ancora si pentono di essersi contese in uno scontro senza precedenti l’olandese ABN AMRO, tristemente fatta a pezzi dal trio vincente composto da RBS, Fortis e quel Santander che è riuscito a rifilare l’appena acquisita Antonveneta al Monte dei Paschi di Siena, al netto peraltro di Interbanca e di pezzi minori, ad un prezzo realmente remunerativo per un acquisizione durata soltanto lo spazio di un mattino.

Non altrettanto si può dire per la Francia, paese nel quale le tre maggiori banche sembrano accomunate da una discesa delle quotazioni che sembra non operare particolari distinzioni tra entità che pur presentano caratteristiche e problematiche certamente molto diverse, ma che sembrano accomunate da uno scarso appeal nei confronti dei potenziali azionisti, né molto diverso si presenta lo scenario italiano, che vede i primi due gruppi bancari non molto distanti dai minimi storici toccati nel corso di questa tempesta perfetta, mentre il terzo polo in formazione con epicentro in quel di Siena stenta anche a recuperare quel livello dei due euro per azione che sino a pochi mesi orsono sarebbe stato visto come un’onta disonorevole dalla omonima fondazione che ha deciso, o è stata costretta, ad investire nel gruppo bancario poco meno del 90 per cento del suo patrimonio da 5,4 miliardi di euro e che ora cerca disperatamente di trovare dei partner bancario e/o assicurativi di respiro quanto meno europeo che la aiutino a tirarsi fuori dagli impicci nei quali l’ha cacciata Mussari, uno che non è neanche nato a Siena e che, almeno agli occhi degli alquanto inferociti contradaioli, ha cacciato la Fondazione e la Banca in un vicolo cieco che li conduce, pari pari, nelle fauci del molto mal disposto tre volte ministro dell’Economia, quel Giulio Tremonti che già aveva imposto, per legge, il limite del 30 per cento alle Fondazioni di origine bancaria.

Ma, venendo alle odierne vicende americane, è giusto osservare che non ha destato buona impressione tra gli operatori la notizia che, non più tardi di ieri, l’addetto alle consegne di titoli della finanza strutturata di Lehman Brothers si è presentato alla capace discarica aperta dalla Fed di New York alla guida di un vero e proprio convoglio di camion, in luogo del solito camioncino da uno-due miliardi di dollari, al giorno, si intende, facendo crescere le preoccupazioni degli operatori che proprio non riescono a dimenticare che il livello di leverage della storica Investment Bank, così come quello di Morgan Stanley e Merrill Lynch, non si discosta poi molto da quello del defunto orso di Stearns, volenterosamente acquisito a prezzi di vero saldo da quella J.P. Morgan-Chase che si colloca solo poco al di sotto di quel rapporto di circa 30 volte esistente nelle altre quattro appartenenti al gruppo delle Big Five oggi, purtroppo, ridotte soltanto a quattro.

Veramente a poco servirà a Lehman ostinarsi ad acquistare a piene mani i propri titoli come sta facendo veramente senza soste da ieri, così come a poco serviranno le smentite che ricordano tanto i giuramenti del numero uno della sfortunata Bear Stearns nei tre giorni precedenti al collasso, evitato per un soffio dopo la drammatica nottata che ho più volte descritto in diverse puntate del Diario della crisi finanziaria, vicende che sembrano non aver insegnato molto a Bernanke, Paulson ed al capo della Securities and Exchange Commission, l’ormai mitico Effe O Ixs, noto ai suoi contemporanei come Fox, uno che se la batte con l’altrettanto mitico King, Governatore della Bank of England.

Il massiccio buy back in corso in queste ore da parte di Lehman non appare molto diverso dall’altrettanto ostinato modus operandi delle maggiori banche centrali sul mercato dei cambi e su quello della liquidità interbancaria, movimenti alquanto inconsulti che si traducono, nella maggior parte dei casi, in un effetto boomerang che produce più danni di quanto sarebbe accaduto lasciando libero il mercato di sfogare la sua delusione per l’assoluta inutilità degli 8 miliardi di dollari di aumenti di capitale effettuati in questi mesi, così come a poco serviranno i 4 miliardi di dollari di cui parlavano ieri fonti vicine alla banca di investimento o l’eventuale soccorso di qualche fondo sovrano, che non avrà certo modalità meno esose di quelle strappate ad altre banche dagli abili manager di questo particolare tipo di fondi.

Può sembrare paradossale, ma in soccorso di Lehman è veunto un upgrade di un’altra indiziata di possibile default, Merrill Lynch, che cerca di sovrastare l’impatto del pressoché contemporaneo downgrade emesso da Fitch, un giudizio che un normale mercato finanziario dovrebbe valutare con un giusto grado di sospetto, anche se, da umile cronista della tempesta perfetta, devo dire che ho avuto più volte modo di rendermi conto che la maggior parte degli operatori crede solo a quello che vuole credere.

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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

martedì 29 novembre 2016

Il Financial Times lancia l'allarme su otto banche italiane!


Il Financial Times lancia, nell'edizione in edicola, un forte allarme, dicendo che,  dopo un'eventuale vittoria del no al referendum del 4 dicembre di quest'anno di disgrazia 2016 e le conseguenti dimissioni di Matteo Renzi da Presidente del Consiglio ma non dalla carica di numero uno del Partito Democratico, otto banche italiane di varia dimensione, dal molto malmesso Monte dei Paschi di Siena, passando per Banca Carige, Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca , per non parlare delle quattro banche tecnicamente fallite e trasformate in good banks, tre delle quali (Banca Etruria, Banca Marche e Carichieti nel mirino, con la aperta benedizione della Vigilanza della Banca Centrale Europea di una alquanto riottosa UBI Banca, mentre di Cariferrara si sono perse le tracce), insomma un pezzo del sistema bancario con untotele dell'attivo superiore ai 200 miliardi di euro, un'ipotesi per scongiurare la quale il quotidiano principe della City propone agli elettori italiani di esprimersi con un si motivato non solo e non tanto da un'adesione alla riforma costituzionale, quanto per meri motivi di portafoglio.

Tutto questo sarà una novità per i lettori della stampa generalista o per i fruitori di informazione economica dai network televisivi, ma non certo per i lettori del Diario della crisi finanziaria nel quale i travagli delle banche menzionate nell'articolo citato del FT sono stati seguiti day by day con dovizia di particolari sia in sede di resoconti di quanto stava e sta accadendo, ma anche come sforzo previsivo sia riferito alla banche statunitensi nella prima ondata della Tempesta Perfetta (vedi per tutte la previsione con largo anticipo nel post intitolato "Lehman is the next?"dell'estate del 2008) sia a quelle tedesche e italiane, ma anche l'attenzione alle banche globali francesi e britanniche (si veda la serie di post dedicati a Northern Rock e alla belga Fortis acquisita da BNP Paribas), sempre partendo dal presupposto del carattere sistemico del default di una sola di queste banche che ancora credono nel too big to fail.

Tuttavia, credo che vi sia  qualche omissione non del tutto casuale nell'elenco delle banche italiane a riscio, a iniziare dall'assenza del colosso creditizio italiano Unicredit, una banca che è ancora indietro come total assets e come capacità di influenza sul mondo politico rispetto a Intesa-San Paolo, anche se è più grande di questa all'estero dove ha, tra l'altro, una delle più grandi banche tedesche, HVB che è tuttavia molto distante dalle prime due, Deutsche e Commerz, ed ha anche più di un acciacco, ma sarei curioso di sapere quanta massa debitoria ha esposta al bail in, visto che si è scoperto che Monte Paschi ha un bacino da cui attingere di 68,4 miliardi di euro di cui oltre 50 miliardi riferibili alla quota di depositi eccedenti la fatidica soglia dei 100 mila euro.

Ebbene, il possibile passaggio di Monte dei paschi nella procedura di risoluzione determinerebbe un effetto domino dal quale si salverebbero in pochi, ma se toccasse a Unicredit, e ancor più se toccasse a tutte e due insieme con contorno di qualcun'altra delle banche nominate dal FT, allora il Fondo Interbancario di Garanzia dei Depositi non sarebbe in grado di far fronte alla garanzia per i depositi entro la soglia dei 100 mila miliardi, aprendo uno scenario del si salvi chi può, uno scenario dalle conseguenze difficilmente immaginabile che richiederebbe l'intervento dell'apposito Fondo istituito nell'area euro, quello, per intendersi, che fu utilizzato per salvare le banche spagnole e quelle portoghesi e che richiede l'accettazione di impegni formali da parte del Governo imposto dalla Troika, BCE, Commissione UE e Fondo Monetario Internazionale!


domenica 27 novembre 2016

Il dilemma atroce degli over 100 mila euro!

In attesa di ripubblicare le dieci puntate del diario della crisi finanziaria dedicate alle conseguenze economiche di Silvio Berlusconi, credo utile riproporre, vista l'attuale congiuntura questa puntata relativa alla quantificazione fatta dalla Banca d'Italia nel 2016 dell'ammontare dei depositi bancari extra large, quelli cioè che sono protetti dal fondo interbancario di garanzia in caso di default.

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Non volevo credere ai miei occhi quando, qualche mese orsono, ho letto le statistiche di Banca d'Italia sui depositi bancari aggredibili (in Italia, dice Bankitalia, che la somma dei depositi eccedenti la soglia dei 100 mila euro è pari a 425 miliardi di euro e, cioè, ad oltre 800 mila miliardi di vecchie lire) nella malaugurata ipotesi che la vostra banca sia costretta ad entrare, per qualsivoglia motivo, nella cosiddetta procedura di risoluzione, una procedura che è stata inventata dai solerti custodi della stabilità bancaria, nell'eurozona che poi non è altro che un escamotage per evitare l'ipotesi di fallimento vero e proprio, una procedura che prevede che, in luogo di un bail out effettuato con soldi dei contribuenti, si richieda, entro il limite dell'otto per cento dell'attivo di bilancio, un sacrificio a tre categorie di soggetti, in una parola il cosiddetto bail in.

Si tratta di un sacrificio che toccherà in primo luogo gli azionisti, detentori di una quota del capitale della banca che per definizione è definita investimento di rischio, che non hanno davvero nessun Santo a cui appellarsi perché non è sostenibile la tesi che non sapevano, quando acquistavano le azioni, che qualche rischio lo correvano e i cui investimenti vengono definitivamente azzerati, poi vengono quelli che hanno investito in obbligazioni subordinate appunto a quel rischio di default ed altre categorie di obbligazionisti. 

Va detto ad onor del vero che la clientela retail si è liberata in tempi brevi di quasi metà del notevole outstanding di questa categoria di obbligazioni, seppur incorrendo in una sensibile potatura del capitale nominale di quelle obbligazioni e ritengo lo abbia fatto in particolare per quei titoli di credito (sic) emessi dalle banche maggiormente attenzionate dalle donne e dagli uomini alle dirette dipendenze di Madame Nouy, capo indiscusso dal giugno 2014 della Vigilanza nell'eurozona che risponde direttamente al Consiglio direttivo della BCE cui riporta ogni due settimane sui casi più scabrosi e che ha già "seccato" due banche italiane delle quindici sulle quali vigila direttamente (Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, il vero "buco nero" del credito in Italia) e tiene il fiato sul collo ad altre quattro Monte dei Paschi di Siena, Unicredit, UBI Banca e Banco Popolare-Banca Popolare di Milano, che dal 1° gennaio del 2017 saranno un'entità unica).

Ma la mannaia cadrà anche per i depositanti per la quota che eccede i 100 mila euro, o un multiplo nel caso di conti cointestati che, quindi, se sono riferibili a due persone, portano la soglia a 200 mila e così via a seconda del numero di cointestatari, una soglia che è mutuata dalle norme applicabili in caso di default ed entro la quale interviene il Fondo Interbancario di Garanzia che è finanziato daille banche con un contributo pari ad una frazione dei loro depositi e che si trovò in non poca difficoltà  nel novembre del 2015, quando è stato chiamato non solo a garantire i depositi entro la soglia dei 100 mila euro, ma anche a provvedere alla pulizia dei bilanci delle stesse creando quattro bad bank in cui confluirono i crediti deteriorati e quattro good bank che sono state messe in vendite, una vendita che sarà finalizzata per tre di loro che verranno acquisite dall'Unione delle Banche Italiane, il quinto gruppo creditizio in ordine di importanza del Belpaese guidato da Viktor Messiah e che ha come regista indiscusso il Dr. Prof. Avv. Giovanni Bazoli entrambi attualmente sotto l'attenzione della Vigilanza BCE e della magistratura italiana.

Anche in questo caso, ma le statistiche ufficiali non aiutano, dovrebbe essersi registrato un flusso di capitali verso altre banche considerate, a torto o a ragione, più solide, quello che invece è certo è che sta andando di lusso al Bancoposta che sta registrando un ragguardevole numero di nuovi clienti, ma che, dopo l'intervento significativo in Alitalia, è ora chiamata a far parte, insieme alla controllante Cassa Depositi e Prestiti e ad un altro investitore, all'acquisto di una entità finanziaria controllata da Unicredit!

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Questo post rimarrà in testa al Diario della crisi finanziaria anche nella giornata di domani, 28 novembre. Gli accessi al blog stanno toccando sempre più spesso le 500 e le 600 visite giornaliere con una netta prevalenza di quelle provenienti dagli Stati Uniti d'America, il che per un blog scritto in italiano è quantomeno curioso.


venerdì 25 novembre 2016

Per il Monte dei Paschi un bail in da 13 miliardi di euro?


Credo proprio di aver dedicato alla situazione molto difficile e ingarbugliata del Monte dei Paschi di Siena un numero di puntate del Diario della crisi finanziaria tale che non ha paragoni con qualsivoglia altro argomento e questo perché le sorti del terzo gruppo bancario italiano (almeno lo sarà fino a che verrà formalizzata, a far tempo dal 1° gennaio del prossimo anno la fusione tra Banco Popolare e Banca Popolare di Milano, perché il gruppo bancario risultante avrà un totale attivo più alto, seppur di poco, di quello che caratterizza il Monte dei Paschi) sono giudicate da tutti di rischio sistemico per il sistema bancario italiano, ma con riflessi di rilievo anche a livello europeo, non solo a livello di eurozona.

A questa partita ho dedicato la puntata di ieri e, quindi, sui rischi e le opportunità presenti nel piano di Fabrizio Viola, poi emendato in alcuni aspetti non secondari dal nuovo CEO e Direttore Generale Marco Morelli, non aggiungerò una riga che sia una, mentre devo dire che sono rimasto scioccato dalle cifre sul bail in diffuse da fonti interne alla banca senese e che dicono che sono teoricamente soggetti a questa particolare di riforma del processo di risoluzione 64,8 miliardi  di euro su 162 miliardi di passività totali della banca, mentre le masse che sarebbero aggrediti da questa particolare forma di tagliola non possono superare l'8 per cento del totale del passivo e, cioè, una somma pari alla bellezza di 13 miliardi di euro, un'applicazione che cioè colpirebbe la totalità degli azionisti e degli obbligazionisti subordinati, senza distinzione tra istituzionali e clientela privata, e per un numero imprecisato di miliardi  di euro anche i depositanti per la quota eccedente la soglia dei 100 mila euro.

Il bastone del bail in sarebbe controbilanciato da un'intervento del Fondo di risoluzione europeo volto a ricapitalizzare la banca senese con un esborso pari ad otto miliardi di euro, il che significa che il Monte dei Paschi di Siena non verrebbe lasciato fallire e che l'aiuto non sarebbe a carico dello Stato italiano ma verrebbe altresì a fronte di un fondo cui l'Italia in uno con gli Stati membri dell'Unione europea partecipa, ma è evidente che la posizione ufficiale del nostro Governo presso la Commissione e presso la Banca Centrale Europea è quella di opposizione totale all'applicazione del bail in, o meglio esclude che lo stesso venga utilizzato nei confronti dei privati che hanno sottoscritto, per due miliardi circa, le obbligazioni subordinate o che vengano colpiti i depositanti per la quota superiore ai 100 mila euro.

Su questo ultimo punto, vorrei ricordare la puntata di questo blog che ricordava come, secondo i dati forniti dalla Banca d'Italia, la quota eccedente i 100 mila euro era pari a fine 2015 alla cifra di 425 miliardi di euro, il che fa capire come, nel terzo gruppo italiano, la quantità eccedente la soglia, fermo restando che, in base ai dati forniti dalla banca la massa assoggettabile al bail in è pari a 64,8 miliardi di euro, non può ragionevolmente essere inferiore ai 50 miliardi di euro (ovviamente questa è la massa aggredibile, fermo restando che l'intervento non può superare i 13 miliardi citati all'inizio), una parte dei quali appartengono a persone fisiche.

Insomma, un vero e proprio bagno di sangue per i risparmiatori che né Renzi né Padoan possono permettersi, sopratutto volgendo la mente a quanto è accaduto nel caso delle quattro banche medio piccole, Etruria e le sue sorelle, con danni per la clientela privata di molto inferiori alle cifre che sono in ballo per Monte dei Paschi!

Non so se sia stata la diffusione ad arte di queste cifre, peraltro certamente veritiere, ma ieri l'assemblea straordinaria, dopo una lunghissima e quasi estenuante discussione, ha approvato tutto quello che Morelli ha sottoposto a votazione: aumento di capitale da cinque miliardi e maxi cessione delle sofferenze lorde per  qualcosa di più di 28 miliardi, mentre molti degli obbligazionisti hanno capito che è meglio un uovo oggi di una gallina molto improbabile domani e, quindi, si apprestano a diventare azionisti di MPS:


giovedì 24 novembre 2016

Facciamo il punto sul Monte dei Paschi


Quella di oggi è una giornata molto importante per Marco Morelli, Chief Executive Office e Direttore Generale del Monte dei Paschi di Siena da soli due mesi e alle prese con un'impresa da far tremare i polsi e, cioè, quella di condurre in porto l'operazione di risanamento della più antica banca italiana, ripulendo in un colpo solo sofferenze lorde da 28 e rotti miliardi di euro e procedendo ad un aumento di capitale da 5 miliardi di euro, una cifra cui non si potrà giungere se non convincendo gli alquanto riottosi possessori di bond subordinati a convertire il credito da loro vantato nei confronti della banca senese in azioni della stessa, azioni che solo qualche settima fa sembravano destinate a toccare il traguardo negativo dei 10 centesimi prima di un rimbalzo che ha portato il loro valore fino all'area dei 40 centesimi per poi risprofondare ieri sino a poco più di  20 centesimi, segnalandosi come l'azione più volatile del listino principale, quel Footsie Mib dal quale verrà a breve cacciata per impresentabilità.

Certo, il piano industriale presentato il 24 ottobre scorso da Morelli era stata in realtà progettato dal suo predecessore, lo sfortunato Fabrizio Viola, ma presenta delle novità sulle quali mi sono soffermato in alcune puntate del Diario della crisi finanziaria, ma quella che più conta è che il nostro sta dicendo in pratica ai possessori di bond subordinati che per loro è meglio, ma molto meglio accettare la sua offerta di conversione a prezzi che vanno dal 100 per cento all'85 per cento del valore del bond, anche perché se l'operazione va male non resta che rivolgersi al triumvirato di ferro che guida la Vigilanza bancaria nell'area dell'euro perché si dia il via a un percorso di risoluzione che prevede in primis l'azzeramento di azioni, obbligazioni subordinate e quota dei depositi eccedente la soglia dei 100 mila euro, un operazione che vedrebbe i famosi aiuti statali ma solo dopo un bail in che, forse salverebbe solo i due miliardi di bond subordinati che fanno capo alla clientela retail, un'esenzione fortemente voluta da Renzi e Padoan ma che dovrebbe ricevere un imprimatur da Madame Nouy e i suoi più stretti collaboratori.

Il CEO del Monte dei Paschi, che sta agendo in totale sintonia con il numero uno di J.P. Morgan Chase, Jamie Dimon, anche perché il molto chiacchierato colosso globale sta svolgendo un ruolo di pivot nel consorzio che si è incaricato di organizzare, ma non di garantire, l'aumento di capitale e la maxi cessione dei crediti andati a male e Dimon è lo stesso che ha chiesto e ottenuto l'uscita "spintanea" di Fabrizio Viola che si opponeva all trasformazione in azioni delle obbligazioni subordinate e non voleva un aumento di capitale che passasse sopra la testa degli attuali azionisti, per non parlare della quisquilia delle commissioni garantite alle banche del consorzio a prescindere del risultato, Morelli, insomma, per J.P. Morgan, Mediobanca e le altre banche del consorzio è proprio l'uomo giusto al posto giusto, anche perché ha mosso i primi passi proprio nella banca da lungo tempo guidata da Dimon.

Ieri, è passato un brivido per la schiena di quanti sono interessati alla vicenda della banca senese, perché è stata diffusa ad arte la notizia che era stato raggiunto, seppure a fatica, il quorum previsto per l'assemblea straordinaria e già la mente di tutti si sta rivolgendo ad un'altre data, quella del 28 di questo mese quando verrà lanciata l'offerta pubblica di acquisto dei bond subordinati, che, lo ripeto, è oramai una conditio sine qua non perché l'aumento di capitale abbia successo, ma, d'altra parte anche come verrà organizzata la cessione integrale delle sofferenze sarà al centro delle attenzioni degli attuali azionisti, in primis il Governo italiano, che possiede ancora il 4 per cento delle azioni della banca.

La mia opinione è che sulla carta gli ingredienti ci sono tutti perché la complessa operazione abbia successo, un qualcosa che, in base alla mia esperienza, questo è anche il segnale che potrebbero andare molto, ma molto male!

mercoledì 23 novembre 2016

La Vigilanza BCE raddoppia le attenzioni sulle banche italiane


Nel giorno in cui l'Unione di Banche Italiane (UBI) saldamente guidata da Viktor Massiah accetta di fare quell'aumento di capitale da 5-600 milioni di euro fermamente rifiutato fino ad ora ma altrettanto fermamente e con successo chiesto da Madame Nouy capo della Vigilanza BCE, aumento necessario per il via libera all'acquisizione di tre delle quattro banche fallite nel novembre 2015 ma salvate da un decreto governativo che ha fatto nascere quattro bad bank con tutte le sofferenze e quattro good bank che, in pochi mesi di vita, di sofferenze ne hanno già accumulate per 3,7 miliardi di euro, ritengo utile ripubblicare questa pur recente puntata del Diario della crisi finanziaria, non toccando tuttavia il titolo che avrei,  invece, voluto modificare in "La Vigilanza BCE triplica le attenzioni sulle banche italiane".

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In diverse puntate del Diario della crisi ho espresso, per quel che vale, la mia solidarietà ai Chief Executive Officer e ai presidenti delle quindici banche italiane vigilate direttamente dal Consiglio di Vigilanza istituito nel giugno del 2014 presso la Banca Centrale Europea, un organismo guidato da Danielle Nouy, già ai vertici di Banque de France, coadiuvata da un'altra donna proveniente dalla Bundesbank e dall'italiano Ignazio Angeloni, un uomo partito da Banca d'Italia e poi al Fondo Monetario Internazionale e in BCE sin dalla costituzione della banca centrale dell'area dell'euro, per le notti perdute cercando di capire quando la scure della Nouy e compagni si sarebbe abbattuta sul loro capo.

Le banche vigilate direttamente, per tutte le altre la Vigilanza continua a far capo alla Banca d'Italia, sono quelle elencate di seguito in un ordine che non è quello per importanza e fanno parte del gruppo di 119 banche dell'area dell'euro vigilate direttamente dall'isituzione basata a Francoforte: Banca Carige; Banca del Monte dei Paschi di Siena; Banco Popolare;  Banca Popolare dell'Emilia Romagna; Banca Popolare di Milano; Banca Popolare di Sondrio; Banca Popolare di Vicenza; Barclays Italia; Credito Emiliano; Iccrea Holding; Intesa San Paolo; Mediobanca; Unicredit; Unione di Banche Italiane e Veneto Banca.

Le quindici banche sono state individuate sulla base di criteri meramente oggettivi e, cioè. sul totale dell'attivo o sulla rilevanza, come nel caso di Barclays  Italia, nel mercato creditizio italiano, sono assenti giustificate la Banca Nazionale del Lavoro, in quanto integralmente controllata da BNP Paribas ovviamente vigilata da Francoforte al pari delle maggiori banche francesi e Unipol Banca totalmente controllata dal Gruppo Unipol.

L'elenco fa, altresì, capire in modo immediato quanto il trio franco-tedesco-italiano al vertice della Vigilanza BCE si sia portato avanti con il lavoro e questo in poco più di due anni dal fischio di inizio che il Presidente della BCE, l'italiano Mario Draghi, ha dato a metà del 2014, in quanto le due maggiori banche venete, il Banco Popolare è ormai un'entità uscita prepotentemente dagli angusti confini regionali, la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca sono oramai finite nelle mani di un Fondo Atlante che, a distanza di parecchi mesi, non sembra proprio sapere che farsene ed entrambe affondate da aumenti di capitale per complessivi 2,5 miliardi del tutto rigettati da un mercato che definire nervoso è davvero un vero e proprio eufemismo, anche se va detto che non vi sono state le conseguenze piene di un bail in che non è scattato.

Per altre due banche, il Banco Popolare e la Banca Popolare di Milano, si è ricorsi alla fusione, con l'aumento di capitale da un miliardo richiesto al solo Banco Popolare che, al di là dei patriottismi imperanti a Milano, è di fatto la banca acquirente, mentre dal 1° gennaio dell'anno prossimo la nuova entità dovrà fare i conti con quello smaltimento delle sofferenze per il quale la Vigilanza BCE ha richiesto, appunto, l'aumento di capitale che bisognerà però vedere, una volta consolidati i conti, se sarà sufficiente alla bisogna.

Sul Monte dei paschi non vorrei soffermarmi in questa sede se non per dire che il piano industriale di Jamie Dimon, via Marco Morelli, è oramai giunto, con l'offerta di conversione di "tutte" le obbligazioni subordinate in azioni della banca senese, al momento della verità e, certo, le armi di persuasione sono state messe in campo proprio tutte e la scelta appare proprio obbligata per gli sventurati possessori dei bond, mentre la richiesta di portare il Tier1 di Unicredit al 12,25 per cento mette davvero i brividi al "nuovo" amministratore delegato del colosso creditizio milanese, per non parlare della vera e propria rissa messa in campo da Viktor Messiah di UBI che è riuscito a non fare l'aumento di capitale per acquisire tre delle quattro good bank emerse dalla triste vicenda di Banca Etruria e le sue tre consorelle.

Graziate, a torto o a ragione, le altre sette banche del raggruppamento, rimane solo Carige, una banca che di ispezioni della Vigilanza BCE ne ha in corso due, una sulla qualità dell'attivo l'altra, più recente sulla Governance e, anche se non so proprio come andrà a finire, sono certo, tuttavia, che ne vedremo delle belle!

martedì 22 novembre 2016

Secondo il Financial Times, l'Italia e la Francia rischiano di uscire dall'euro!


E' destinato a fare molto rumore l'editoriale del direttore associato del Financial Times, Wolfgang Munchau, che sostiene che, dopo la Brexit e l'elezione a sorpresa dell'euro antagonista Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d'America, un eventuale crisi di Governo al buio in Italia in conseguenza di una sconfitta di Renzi nel referendum costituzionale e un'eventuale vittoria di Marine Le Pen nelle prossime elezioni presidenziali francesi, innescherebbero in tempi brevi una catena di avvenimenti che porterebbero l'Italia e la Francia fuori dell'area dell'euro se non addirittura fuori dell'Unione europea.

Sarebbe molto sbagliato liquidare la posizione del quotidiano più importante della comunità finanziaria europea come dell'ennesima presa di posizione anti euro e anti UE propria della linea editoriale del quotidiano stampato su carta colorata in marrone con sfumature di rosa, perché l'articolo del direttore associato del FT, un giornalista di origine tedesca molto rispettato nell'ambiente, è molto articolato e fattuale, mettendo in fila, in particolare nei suoi riferimenti all'Italia, una catena molto probabile di avvenimenti che costringerebbero un'Italia guidata da un governo di scopo a prendere, o a subire, decisioni molto drastiche spinta da una crisi dello spread e da una più che probabile crisi sistemica del sistema bancario, per non parlare delle più che prevedibili secchiate di acqua gelata lanciate su una di per sé molto anemica ripresa.

Vi è di più: la catastrofica previsione su le possibili exit di due Paesi importanti sia dell'area dell'euro che dell'Unione europea, ricordo sommessamente che, con l'uscita della Gran Bretagna dal consesso comunitario, stiamo parlando del secondo, quello che peraltro divide con la Germania il ruolo di guida politica dell'Unione, e del terzo, anche se un po' disordinato e alquanto indisciplinato, paese per importanza crea, anche nella comunità giornalistica di un quotidiano che esprime e forma l'opinione dell'industria e della finanza britanniche preoccupazioni una volta tanto non mescolate a soddisfazioni per i guai altrui presenti e, soprattutto, prospettici, una preoccupazione, per una possibile implosione dell'euro e della stessa Unione con sede nell'odiata Bruxelles, che traspare da ogni riga dell'analisi del bravo giornalista tedesco!

La stessa candidatura di Angela Merkel per il quarto mandato come Cancelliera della Germania è stata da lei stessa motivata dall'estrema preoccupazione per il montare apparentemente inesorabile dei movimenti populistici in oramai quasi tutti i paesi dell'Unione, una crescita che si è sostanziata anche in casa sua con l'affermazione del movimento AfD in molte competizioni avvenute di recente a livello di land, che vedrà nel ripetuto ballottaggio alle elezioni presidenziali austriache del candidato dell'ultradestra che ha già annunciato la sua intenzione di sciogliere il Parlamento e vincere a man bassa le a questo punto prossime consultazioni politiche, della Francia è quasi superfluo parlarne, mentre in Italia di movimenti anti sistema ne abbiamo addirittura due, la Lega e quel movimento Cinquestelle che, almeno a dar credito ai sondaggi, sembra inossidabile agli scandali che lo stanno travolgendo da Roma a Palermo, passando per Livorno e Casoria, per non parlare della polemica uscita del sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, dopo una lunghissima sospensione avvenuta per risibili motivi.

Il referendum costituzionale prossimo venturo in Italia assume, quindi, una valenza ben diversa e si profila come uno scontro tra la stabilità, seppure un po' terremotata e il caos, una scelta che difficilmente troverà insensibile quella che Renzi chiama la "pancia" profonda del nostro Paese, una parte consistente degli italiani che al solo sentire la parola crisi di governo al buio avverte i primi sintomi dell'orticaria!

venerdì 18 novembre 2016

La Federal Reserve attacca Donald Trump


Come ho scritto in diverse puntate dl Diario della crisi finanziaria, il programma di Donald Trump per la conquista della casa Bianca, vittoria acquisita stracciando letteralmente "Billary" Clinton nella drammatica notte elettorale andata in scena tra l'8 e il 9 di questo mese, consentono anche l'acquisizione della doppia maggioranza nei due rami del Congresso statunitense, è composto di molte parti che sono pura propaganda e che saranno realizzati solo in minima parte o non lo saranno affatto, punti quali il muro con il Messico che si trasformerà in una vigilanza rafforzata del confine con quell'importante Stato membro del NAFTA, l'espulsione di milioni di lavoratori immigrati clandestini che si tradurrà in un giro di vite sui controlli interni, l'aumento della sicurezza interna che verrà appaltato ai militari suoi supporter, l'attacco alla globalizzazione via revisione dei trattati e revisione degli accordi internazionali in materia che dovrà scontrarsi con i robustissimi interessi delle multinazionali a stelle e strisce che dalla situazione attuale traggono profitti per migliaia di miliardi di dollari e via discorrendo per un qualcosa che somiglia tanto alla montagna che partorì il classico topolino!

Ma, nella costituency di Donald J Trump, c'è un punto che non sarà soggetto a revisione, se non in aspetti puramente parziali e formali, ed è quello dello smantellamento delle poche barriere erette nel 2010 dopo il completo disastro dell'industria finanziaria a stelle e strisce e di quella più o meno globale costituita da entità colossali con base in altri Paesi industrializzati, quali Germania, Francia e Regno Unito, ma anche Belgio, Olanda e Giappone, per non parlare che di quelli principali, uno smantellamento che passa per l'abrogazione totale del Dodd-Frank Act, uno smantellamento fortemente voluto da quelle stesse J.P. Morgan Chase e dalla potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, che si fidano però talmente poco l'una dell'altra che stanno ferocemente litigando su quale di loro esprimerà il nome del Segretario di Stato al Tesoro prossimo venturo, una querelle nelle quale, almeno al momento, sembra avvantaggiata Goldman.

Sulla questione è però intervenuta pesantemente la Presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, sì quella stessa donna che Donald dà  chiaramente a vedere di non amare (a proposito, in tutte le nomine di cui si è parlato finora ho sentito solo nomi di uomini bianchi, anglosassoni e protestanti), che ha ammonito fortemente il Congresso, e lo ha fatto intervenendo alla Camera dei Rappresentanti, dal toccare i delicati equilibri del provvedimento del 2010, facendo capire tra le righe che si tratta peraltro di cautele minimali rispetto ai termini del gigantesco problema rappresentato dal proliferare pressoché incontrollato della finanza più o meno strutturata, un problema che i provvedimenti approvati negli Stati Uniti d'America e in quel di Basilea non hanno affrontato radicalmente, tanto che, ad esempio, un parziale sgonfiamento della montagna di derivati e titoli tossici del colosso dai piedi di argilla Deutsche Bank è avvenuto solo per meccanismi di mercato e cioè la chiusura di posizioni da parte delle controparti di contratti derivati per un nozionale di 30 miliardi di euro circa (ma ne residuano ancora 42 mila e i titoli tossici pare che siano bellamente intatti).

Ovviamente, la Jellen sa benissimo che questo sgonfiamento più o meno ordinato delle posizioni di Deutsche può avvenire perché siamo in una situazione relativamente di calma e se non si ripetono situazioni come quelle che ha visto dieci grandi hedge funds chiudere d'un botto e tutti insieme le posizioni con la banca basata a Francoforte o l'eventuale panico tra i clienti retail, così come sa che le norme della legge del 2010 vanno implementate e non certo abolite con il risultato di tornare al Far West precedente il 2007.

Tutti coloro che seguono la Fed sanno che la banca centrale statunitense avrebbe dovuto fare due aumenti minimo dei tassi in questo anno di disgrazia 2016 dopo quello effettuato alla fine dello scorso anno e che è da questo zoccolo di 50 basis point aggiuntivi e mancanti che si riparte, il che significa che a giugno prossimo si potrà toccare anche il livello di1,25-1,50, a meno che la Fed non intraveda rischi nella politica e economica e fiscale di Trump e, quindi, decisa di procedere più speditamente|

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La vicenda che vede coinvolti Viktor Massiah e altri esponenti dell'Unione di Banche Italiane, UBI, uno dei cinque più grandi gruppi creditizi italiani per un'inchiesta per nomine ai vertici aggiustate e per ostacolo all'attività di Vigilanza, in questo caso quella della BCE e che ha portato alla chiusura delle indagini richiede un approfondimento che farò nel più breve tempo possibile, dedicando una puntata a questa che è la banca sinora meno chiacchierata dell'augusto quintetto di testa del sistema bancario italiano.

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Come largamente anticipato da questo blog, i titoli di Stato italiano sono sotto attacco con i rendimenti del decennale raddoppiati rispetto ai minimi e lo spread oramai in vista della soglia dei 200 basis point e non si sa se la BCE stia intervenendo oppure no.

giovedì 17 novembre 2016

La difficile disfida tra Trump e l'Impero del Dragone


Per chi segue dall'inizio le cronache della terza ondata della Tempesta Perfetta sul Diario della crisi finanziaria, non è una novità che una delle maggiori bolle speculative scoppiate o in procinto di farlo è proprio l'economia, ma ancor più la finanza, di quella che ostina a chiamarsi Repubblica Popolare Cinese, ma che è sempre di più una delle patrie predilette del neoliberismo più spinto, con conseguente nascita come funghi di una pletora di multimiliardari in dollari, lo sviluppo di 26 zone, Shanghai in testa, che stride con le condizioni della Cina più profonda, una diseguaglianza reddituale e patrimoniale che ha pochi confronti nell'Occidente industrializzato e una crescita export driven e caratterizzata da decine di migliaia di transplant giapponesi, statunitensi ed europei che hanno cambiato la faccia dell'economia cinese, industrie poco interessate al pur immenso mercato locale, ma giunte lì per trovare un "ambiente" favorevole e per poter esportare a rotta di colo verso i mercati più ricchi.

Come sempre, o almeno spesso, accade, il "piazzamento" di circa 2000 miliardi di euro di merci cinesi in Giappone, Stati Uniti ed Europa ha iniziato a creare reazioni molto forti e virulente, soprattutto tra quella manodopera più o meno specializzata che si è trovata espulsa, spesso definitivamente, dal mercato del lavoro e ha visto le merci che produceva tornare sul mercato con l'etichetta Made in China ed ha iniziato a dare vita ad un movimento di resistenza che ha trovato asilo nei partiti e movimenti che spesso vengono frettolosamente e etichettati come populisti, ma che minacciano di giungere al potere in Francia, Germania, Austria, Olanda e sono già saldamente insediati nei paesi membri dell'Unione Europea che un tempo erano vassalli dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, ma sono stati determinanti anche nella vittoria, seppur non di larghissima misura, della Brexit e, dulcis in fundo, del tutto determinanti nella recente elezione di Donald Trump, un "non politico" che ha minacciato apertamente le multinazionali e le migliaia di transplant provenienti dagli USA, nonché ha perorato fortemente la causa dell'introduzione di dazi molto, ma molto pesanti per indurre le imprese espatriate a fare ritorno in patria, il che corrisponde più o meno a fare rientrare il dentifricio uscito in eccesso nel tubetto dal quale è uscito.

Donald Trump ha battuto Billary su questo punto ed è su questo che la destra e l'ultra  destra a stelle e strisce hanno strappato Stati tradizionalmente democratici, decisivi per la conta finale dei super delegati che eleggeranno a breve Trump come 45° presidente degli Stati Uniti d'America: blocco dell'immigrazione e cacciata dei clandestini, super dazi alle importazioni cinesi e norme volte a contrastare i transplant, appunto e sa che qualcosa di concreto in questa direzione deve fare per non essere uno dei pochi presidenti che si ferma al primo mandato e che perde tra due anni le elezioni di Mid Term, anche se la guerra all'export cinese dovesse tradursi in quel boomerang che molti paventano e senza considerare la tutt'altro che velata minaccia proveniente dal Governo di Pechino che minaccia di buttare sul mercato gli oltre 1.200 miliardi dollari in Treasury Bonds che possiede e che ha già ridotto, in tempi non sospetti, di 100 miliardi di dollari, così come è utile ricordare che le esportazioni USA verso la Cina superano di poco i 100 miliardi di dollari, mentre le importazioni da quel lontanissimo Paese ammontano a 440 miliardi di dollari.

E Donald lo deve fare anche perché tutto questo è fondamentale per l'altro fronte che intende aprire e che consiste nel consentire alle banche più o meno globali di liberarsi dei lacci e laccioli imposti dopo lo scoppio della Tempesta Perfetta e che lo porterà a nominare un banchiere alla carica di Segretario di Stato al Tesoro e sembra che in questa partita stiano crescendo le possibilità del candidato della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs!

martedì 15 novembre 2016

Ora Marco Morelli (MPS) imbraccia il bazooka!


Chi segue con attenzione e apprensione l'andamento in borsa del titolo del Monte dei Paschi di Siena, avrà notato che ieri stava vivacchiando in una giornata soporifera seppure in rialzo del 2 per cento circa, quando, attorno alle 16 ed a un'ora e mezza dalla conclusione delle contrattazioni, il valore dell'azione strappa verso l'alto attorno ai 28 centesimi per azione (il minimo lo ricordo era stata qualche settimana fa a 16 centesimi) sulla base di una voce informata delle mosse del giovane Chief Executive Officer di MPS, Marco Morelli, un ex tutto ma, in particolare, noto per essere stato nella potentissima banca J.P. Morgan Chase e principale advisor e arranger dell'aumento di capitale della banca senese, avrebbe deciso di rompere gli indugi e impiparsene delle preoccupazioni del Governo italiano, lanciando un'Offerta pubblica di acquisto, carta contro carta si intende, sui cinque miliardi di euro circa di obbligazioni subordinate emesse negli anni scorsi dalla banca di Rocca Salimbeni, obbligazioni parametrate al Tier1 e al Tier2 e nelle disponibilità di investitori istituzionali per tre miliardi e dello sfortunato e alquanto sventurato popolo dei risparmiatori e dei piccoli investitori per i residui due miliardi.

Ma Morelli va ben oltre e non ha scrupoli ad usare "l'arma fine di mondo", in quanto avvertirebbe coloro che sta sollecitando a scambiare dei titoli di credito, le obbligazioni appunto, con titoli di rischio, le azioni del molto malmesso istituto di credito senese, in quanto, secondo quanto riportava un anonimo ma informatissimo articolo dell'edizione on line del quotidiano La Repubblica, dalla roccaforte assediata nella cittadina toscana si fa sapere che, in assenza di una soddisfacente risposta all'appello da parte degli obbligazionisti, MPS non potrà che chiedere l'attivazione delle procedura di risoluzione da parte della Vigilanza della Banca Centrale Europea e gli obbligazionisti di ogni ordine e grado si troverebbero in mano il classico pugno di mosche al pari degli azionisti e dei depositanti per la quota del loro conto eccedente i 100 mila euro, il tutto entro il limite dell'otto per cento del totale dell'attivo!

Come i lettori del Diario della crisi finanziaria ben ricorderanno, in più di una puntata di questo blog avevo parlato dei forti contrasti intercorsi tra il predecessore di Morelli, Fabrizio Viola, e i massimi vertici di J.P. Morgan, fino ad interessare il numero Jamie Dimon, costretto ad una missione a Roma in piena estate per avere contatti al massimo livello con il Governo, contatti da cui scaturiscono le pressioni indecenti che spingono Viola a dare le dimissioni.

Ebbene le materie ci contrasto tra il banchiere romano e le banche a capo del consorzio di garanzia e collocamento sono esattamente tre, almeno quelle principali, e riguardano: 1) il legame tra le commissioni percepite da queste banche e gli effettivi collocamenti; 2) la partecipazione degli attuali azionisti, mediante i diritti, all'aumento di capitale; 3) l'esclusione delle obbligazioni subordinate in mano ai privati dalla conversione più o meno obbligatoria in azioni.

Delle tre materie di contrasto, il Governo sembra interessato solo alla terza, anche perché sono ancora presenti i gravi problemi di immagine legati all'azzeramento di questa tipologia di creditori avvenuta in relazione ai crack delle quattro banche medio piccole avvenuto nel novembre del 2015 a due mesi dall'entrata in vigore di quel bail in che ora Morelli sventola sotto gli occhi di obbligazionisti istituzionali e privati.

Come si vede, uno degli obiettivi è stato raggiunto, ma credo che l'ex dipendente di Dimon porterà a casa anche gli altri due, anche se ritengo che, se porta a casa appieno l'obbiettivo della conversione dei bond in azioni, li ha praticamente conseguiti tutti e tre!

Ma il punto di non ritorno ambientale è stato superato nel 1975!


La Nasa ha reso noto ieri che in questo anno di disgrazia 2016 si è verificato il più sensibile ampliamento del differenziale di temperatura media a livello globale registrato da quando si tengono statistiche accurate sul clima e, cioè, appena prima della Rivoluzione Industriale e che la situazione  climatico/ambientale ha oramai superato il punto di non ritorno. Ho perciò deciso di ripubblicare questo post del 27 ottobre scorso e di farlo in memoria dello scomparso Aurelio Peccei, già presidente del Club di Roma.

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Ha fatto molto rumore, All Over The World, la notizia diffusa dall'organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa dei temi ambientali che informa gli oltre sette miliardi e mezzo di persone abitanti il nostro orbe terraqueo che l'aria che respiriamo contiene oramai quattrocento parti per milione di CO2 e che questa micidiale miscela, che già sta facendo danni avvertibili e tristemente avvertiti, non è più caratteristica delle aree maggiormente inquinate, ma si è diffusa anche nelle zone che erano, a torto o a ragione, considerate al riparo da questo triste fenomeno, al punto da spingere in un passato non troppo remoto gli ultra ricchi del pianeta a comprare, ad esempio in Argentina, enormi appezzamenti di terra dove andare a vivere ove le cose dovessero volgersi al peggio.

Nell'Ufficio Studi dell'importante banca dove ho lavorato per qualche decennio, ebbi l'occasione, per la maggior parte dei quattro anni in cui svolsi la mia attività di ricercatore, di redigere in perfetta solitudine una pubblicazione a cadenza trimestrale nell'ambito della quale scrivevo recensioni di libri di economia, ma non solo, che poi andavano anche all'esterno della banca e avevano come destinatari le biblioteche di tutte le facoltà di economia italiane e i cosiddetti grandi clienti, su segnalazione dei funzionari o dei dirigenti che quelle aziende o quei super ricchi avevano nei loro portafogli (la rassegna aveva il nome di "Segnalazioni dalla letteratura economica" e fu fortemente voluta dall'allora Capo dell'Ufficio Studi, Alberto Mucci, un giornalista che era stato in precedenza direttore de Il Sole 24 Ore e vice direttore del Corriere della Sera).

Ma la rassegna di recensioni e segnalazioni aveva anche un lettore di eccezione, o almeno lo era per i numeri monografici più importanti, quali quello su un volume di La Terza che raccoglieva alcuni interventi sul mai troppo compianto John Maynard Keynes, in occasione di un Convegno internazionale coordinato da Luigi Spaventa, tenutosi nei primi anni Ottanta all'Università della Sapienza,di Roma e questi era il Professor Federico Caffè, ordinario di Politica Economica all'Università La Sapienza e direttore dell'omonimo istituto, ma in precedenza responsabile dell'amplissima e frequentatissima Biblioteca della Banca d'Italia, che poi aveva lasciato, dopo aver vinto il concorso a cattedra, con una grande remissione economica rispetto alla retribuzione che percepiva come alto dirigente di Bankitalia, ma spinto a questa scelta dal fuoco sacro dell'insegnamento c e della formazione dei più prestigiosi economisti che si sono formati con lui, una missione che svolse in modo esclusivo e dedicando ore ed ore ai suoi studenti, un docente universitario H24 che ebbi l'onore di vedermi assegnato come relatore della mia tesi sulla Ricerca e Sviluppo in Italia e in Europa, dissertazione che poi ebbe come relatore il Professor Augusto Graziani della Facoltà di Economia dell'Università degli studi di Napoli cui ritornai per ragioni personali ma solo dopo che Caffè mi  trasmise preziosi suggerimenti sulla parte iniziale della tesi e sull'approccio quasi maniacale alle note a piè di pagina nella redazione della stessa.

Quando Federico Caffè lasciò una mattina presto casa sua senza lasciare nessuna indicazione su dove avesse intenzione di recarsi, ero collaboratore della redazione economica del quotidiano il Manifesto e ricordo che chiesi ai responsabili di poter parlare di lui, prendendo spunto da un suo libro e, sempre a Via Tomacelli, ricevetti la lettera del suo editore abituale che mi ringraziava per il ricordo che avevo dato del professore scomparso si dichiarava a disposizione per eventuali pubblicazioni, opportunità della quale mi dichiarai grato ma che non ho mai utilizzato.

Fu nell'ambito di questa attività bellissima e, secondo Caffè, da tenersi molto stretta (cosa che, ovviamente, non feci) che mi imbattei in quello che forse è il prodotto più importante del prestigioso Club di Roma, "I limiti dello sviluppo", un libro, o meglio un rapporto redatto da due docenti del Massachusetts Institute of Technology indirizzato a tutti, ma in particolare ai Decision Makers del pianeta, fortemente voluto dal fondatore dello Stesso Club, l'Ingegner Aurelio Peccei, un ex comandante partigiano e fortunato nonché illuminato imprenditore, ma, e forse soprattutto, un pensatore poliedrico e un vero spirito libero che non fu assolutamente capace di assistere inerte alla sistematica distruzione delle risorse naturali dell'unico pianeta che abbiamo, una distruzione dettata da una logica capitalista molto, anche troppo, capace di vedere le possibilità e le opportunità dell'oggi, ma, almeno nella larghissima parte dei casi, totalmente incapace di avere una visione del futuro, non solo di quello remoto, ma anche di quello relativamente prossimo, come i dati scientifici riportati nel volume impietosamente dimostrano, dati che pur risalendo ad oltre quaranta anni orsono, sono davvero impressionanti anche se letti ai giorni nostri.

Ma quello che più mi interessa sottolineare de "I limiti dello sviluppo", che, ovviamente recensii ampiamente ed entusiasticamente in "Segnalazioni dalla letteratura economica", è la parte nella quale, sulla base dei dati sull'esaurimento delle risorse dovuto allo scellerato modello di sviluppo imperante all'epoca, e non troppo diverso da quello vigente oggi, i quattro autori  del rapporto, pubblicato per la prima volta nel 1972, indicano il cosiddetto punto di non ritorno, quello oltre il quale gli interventi, anche i più radicali, di contrasto al degrado ambientale sarebbero risultati inefficaci,, e lo individuarono tre anni dopo e, per la precisione, nell'anno di grazia 1975, cioè esattamente quarantuno anni fa e, superato il quale senza che nulla in appartenenza accadesse, fu oggetto di scherno da parte degli esperti e degli scienziati che hanno dovuto però riconoscere nei decenni successivi che molte delle fosche previsioni del Club di Roma si stavano tristemente realizzando e che la stessa e importantissima sigla delle indicazioni della Conferenza di Parigi sul clima rischiano di essere implementate quando sarà oramai troppo tardi e l'unica indicazione implicita nell'allarme lanciato dall'agenzia dell'ONU della concentrazione di CO2 oltre ogni limite ragionevole, sarebbe quella di trasmigrare ogni sei mesi nell'altro emisfero (sic)! 

lunedì 14 novembre 2016

Che significa abrogare la Dodd-Frank?


Abrogare, dopo appena sei anni, una legge bipartisan che dà una prima risposta alle cause profonde che hanno determinato l'insorgere della Tempesta e, nell'ambito di questa, la più grave crisi di liquidità dal secondo dopoguerra mondiale è una cosa che non certo stata partorita dal cervello normodotati del quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d'America, essendo frutto, invece, del Gotha dell'industri finanziaria a stelle e strisce ben supportato  dai massimi esponenti delle banche globali da sempre insediate negli USA e trattate dalla Federal Reserve, la cui presidente, Janet Yellen è del tutto a rischio nel 2018 anno di scadenza del suo primo mandato, come fossero degli amatissimi figli adottivi, lo stesso gruppo di pressione che fece vedere ai relatori del provvedimento i sorci verdi nei lunghi mesi richiesti per superare le opposizioni altrettanto bipartisan alla prima legge che si ispirava ai lavori del gruppo capitanato da Super Mario, al secolo Mario Draghi al comando, per quanto?, della Banca Centrale Europea.

Ma quale è la situazione normativa che riguarda l'industria finanziaria dopo l'abrogazione del Glass Steagall Act, il testo normativo degli anni Trenta stilato sull'onda della gravissima crisi dell'ottobre del 1929 e che stabilì, sull'onda dell'indignazione popolare che le banche commerciali dovevano fare le banche commerciali e che se avevano la pruderie di fare finanza più o meno strutturata dovevano farla in un E' molto divertente luogo specifico e con una netta separazione con le attività di raccolta e impieghi che dovevano restare la mission fondamentale di una banca, mentre le allora molto famigerate banche di investimento potevano continuare a occuparsi delle diavolerie inventate dagli apprendisti stregoni nelle loro fabbriche prodotto, mentre Goldman Sachs e le altre componenti del gruppo delle Big Five dell'Investment Banking non dovevano mettere il naso, né la rapaci mani nell'attività bancaria tradizionale.

La Dodd Frank non mette in discussione la fine della separazione tra Commercial Banks e Investment Banks attuata negli anni della Tempesta Perfetta, una separazione che in realtà era avvenuta ben prima, quanto vuole sottoporre ad esami periodici, i famosi stress test, sia le banche che un tempo erano definite commerciali che quelle definite banche d'investimento, una prassi recente ma in via di consolidamento nell'area dell'euro, in Gran Bretagna e in Giappone, mentre applicarla all tecnicamente fallite banche cinesi corrisponderebbe a un atto di suicidio dalle conseguenze difficilmente immaginabili sia al di là che al di qua dell'Oceano Pacifico e di quello Atlantico, un qualcosa che rischierebbe seriamente di mandare a carte quarantotto l'intera economia mondiale ed è uno dei motivi, io credo quello più importante per il quale tutti fingono di credere ai bilanci delle banche cinesi e tutti continuano a credere alle cifre alquanto farlocche dell'ente ufficiale di statistica della Cina!

E' molto divertente assistere al balletto di dichiarazioni del principali banchieri a stelle e strisce, per non parlare di quelle del deputato che ha convinto Trump ad occuparsi della materia un po' incandescente, sembra infatti che l'abrogazione non sarebbe totale ma si procederà, come pare accadrà anche nel caso dell'Obamacare, per parti, ma quello che emerge è che nessuno di questi CEO o Chairman sembra avere il coraggio di dire che la normativa introdotta nel 2010 per tutti loro è né più, né meno che l'orticaria e che sperano vivamente che Donald Trump levi loro le castagne dal fuoco abrogando sic et simpliciter il testo da loro tanto odiato.


venerdì 11 novembre 2016

Nella vera Costituency di Donald Trump sta scritto quello che farà nei prossimi mesi!


Con buona pace delle tante decine di milioni di elettori bianchi, disoccupati o sottoccupati a causa degli alti marosi della Tempesta Perfetta,  che hanno creduto in totale buona fede nei suoi truculenti slogan elettorali sulla fine della globalizzazione, l'impugnazione dei Trattati quali il Nafta made by Bill Clinton, una durissima campagna di dazi doganali in danno dei paesi (Cina e Messico in primis) che inondano di merci i mercati statunitensi, spesso a partire dalle migliaia di transplant che sono il risultato di chiusure a catena di fabbriche a stelle e strisce e di aperture dove più conviene, insomma una bella torta confezionata per chi, deluso per i disastrosi effetti derivanti dalla politica dei due grandi partiti tradizionali sulla propria condizione di vita, sperava veramente che il magnate newyorkese fosse davvero uno di loro e non, come appare sempre più chiaro, uno dei soliti burattini in mano dei soliti noti.

Chi sono questi noti che, un po' nell'ombra ne hanno favorito la corsa? Si tratta delle grandi banche globali, dell'industria degli armamenti privati o su scala internazionale, dei costruttori  a volte senza scrupoli, dei petrolieri, delle voracissime compagnie di assicurazioni che hanno subìto e sabotato l'Obamacare e chi più ne ha ne mette, insomma di tutti quelli colpiti o in procinto di esserlo dalle poche ma incisive riforme vene fuori dagli otto anni di Barack Obama alla Casa Bianca, in realtà in parte svuotate per accordo tra repubblicani e democratici, come la celebre Dodd-Frank sui limiti da porre al mostruoso output delle fabbriche prodotto delle divisioni di Corporate and Investment Banking delle banche più o meno globali, alla crescita a volte abnorme delle tariffe dell'Obamacare e via discorrendo; scusate la confusione espositiva, ma spesso alcuni di questi soggetti sono presenti per più di un motivo.

Ora che l'ora del voto è passata (con buona pace delle migliaia di ragazze e ragazza che hanno popolato le strade di alcune città a stelle e strisce, dopo aver semmai votato per la coppia Billary che, negli anni Novanta aveva posto le basi su cui si è sviluppata la più grave crisi finanziaria degli ultimi settanta anni) e che Donald Trump "è" davvero (sic) il 45° Presidente degli Stati Uniti d'America, le componenti più agguerrite della sua costituente elettorale non aspettano neanche la fine dell'incontro di cortesia, ma non solo, che Obama ha voluto dedicare all'individuo che questo grande milieu di banchieri, avvocati d'affari, assicuratori d'alto bordo, costruttori come lo stesso Donald ha sostenuto in ogni modo possibile e immaginabile (mi aveva impressionato una sua foto di gruppo, scattata durante la campagna elettorale, con esponenti di queste categorie che assommavano una buona parte del PIL e della ricchezza degli  Stati Uniti d'America) aveva eletto a suo alfiere per riportare l'orologio della Storia a prima di quell'orribile 9 di agosto del 2007 quando gli altissimi marosi della Tempesta Perfetta sono comparsi in tutto il mondo industrializzato, anche se sarebbe meglio dire finanziarizzato e globalizzato.

La mission di Donald è già scritta ed è ben diversa dalle mirabolanti promesse rivolte a quell'esercito di disperate e disperati vittime della finanziarizzaione e globalizzazione, elemento quest'ultima inscindibilmente legato alla prima, per cui si dimentichino l'abolizione dei trattati commerciali che porterebbe con sé l'eliminazione della libertà di movimento dei capitali, una mission facilitata dalla maggioranza assoluta nelle due camere e che richiederà mesi, massimo un anno, per tradursi in atti concreti che spesso non sono altro che atti demolitivi delle leggi faticosamente fatte approvare da Barack Obama e se i suoi tanti elettori ingannati non lo rivoteranno amen, ptrà sempre dire a quel migliaio di suoi veri grandi elettori:"Mission accomplished". Il dibattito sull'identikit del nuovo Segretario al Tesoro non mi appassiona, anche se suggerirei al famoso Jamie Dimon, numero uno di J.P. Morgan-Chase, di lasciare la mano al giovane tesoriere della campagna elettorale di Trump, un ex della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, un banchiere non più in servizio permanente effettivo e che può vedersela più facilmente con Super Mario e gli altri banchieri centrali e che potrebbe, nel 2018, prendere il posto di Janet Allen alla guida della ancora potentissima Federal Reserve!

mercoledì 9 novembre 2016

Donald Trump sta vincendo grazie alla Tempesta Perfetta!


Se qualcuno, non più tardi di cinque anni orsono, mi avesse detto che la Gran Bretagna, l'unico paese membro del Club di Bruxelles a pagare un biglietto di iscrizione molto, ma molto modesto, con una quantità di opting out quasi superiore alle norme conformi ai Trattati, avrebbe deciso a maggioranza di uscire dall'Unione europea, che in pole position per le presidenziali francesi ci sarebbe stata Marine Le Pen, degna rampolla del razzista e truculento Jean Marie, o che nella civilissima Germania un movimento di estrema destra come la AFD si sarebbe dimostrata così radicata nei consensi da poter aspirare a scalzare dal potere una sempre più logora Frau Merkel.

Vado a capo per non stancare il lettore con periodi troppo lunghi, ma sono molti gli esempi di cose cui non avrei creduto, come l'entusiastico via libera di Bruxelles all'adesione di Stati fino a pochi decenni prima comunisti, come la Polonia, l'Ungheria, la Romania, la Bulgaria e chi più ne ha ne metta, parvenu della sofisticata costruzione europea che ora vogliono erigere muri fisici o metaforici contro i milioni di profughi e migranti economici che sono giunti in Italia o in Grecia in fuga da guerre mostruose, fame e carestie davvero micidiali o, più semplicemente alla ricerca più dignitosa per se e per i propri figli.

Mi sono limitato ad un breve elenco dei "ma non ci posso credere" se non qualche espressione più colorita che avrei indirizzato al mio ipotetico interlocutore, perché, a solo titolo di esempio, ancora che mi brucia che una ignava e inetta Corte Suprema austriaca abbia disposto un secondo ballottaggio tra un galantuomo leader dei verdi e alfiere di tutto lo schieramento politico tradizionale dovrà vedersela con l'esponente del partito della ultradestra a suo tempo fondato dallo scomparso Jorge Haider e mi fermo qui a proposito dell'evoluzione delle cose politiche del Vecchio Continente perché il mio stomaco e il mio sistema nervoso non reggerebbero altro!

Ma dirò di più: se qualcuno, solo cinque giorni fa, mi avesse detto che, a metà della notte elettorale statunitense per le presidenziali, il rinnovo della Camera dei Rappresentanti e per un terzo dei membri del Senato, l'alquanto rozzo, maschilista e sciovinista per puro opportunismo, Donald Trump, avrebbe visto la vittoria su Billary Clinton a portata di mano, l'avrei accompagnato gentilmente ma fermamente alla porta, in quanto quella sorta di Giano Bifronte che è il risultato dell'unione di Hillary Rodham Clinton con per il due volte ex presidente e alquanto infedele marito, Bill, sembrava nella corsa delle presidenziali che avrebbe concesso verosimilmente alla coppia il diritto di risiedere alla Casa Bianca per la bellezza di sedici anni sembrava proprio un calcio di rigore tirato a porta del tutto vuota.

Come diceva Tina Pica, l'indimenticata attrice caratterista del cinema italiano del dopoguerra: "la genta è fetenta" e noi assistiamo, al di qua e al di là dell'Oceano Atlantico, in una trasformazione radicale nella classe media e in quella lavoratrice inquadrata ai livelli più bassi, due pilastri della società che sono stati fatti letteralmente a pezzi dalla globalizzazione con relativi transalpini di aziende e dalle tre successive ondate della Tempesta Perfetta che ha fatto perdere a molti di loro la casa o il lavoro, ma in non pochi casi entrambi, una condizione che ha indotto nella maggior parte di questi occupati a stelle e strisce paura, scarsa fiducia nel futuro e odio degli effetti della competizione internazionale.

Ed è proprio su questi sentimenti che ha fatto leva con molta abilità ed un alto grado di  spregiudicatezza un per molti versi impresentabile Trump, un uomo che si è vantato di non essere mai stato un uomo politico e che ha detto a questi cittadini spaventati e disorientati che avrebbe fermato gli stranieri, avrebbe imposto dazi altissimi sui prodotti delle aziende statunitensi fuggite all'estero, vantandosi al contempo di non avere il sostegno delle banche, delle compagnie di assicurazione, né di quelle multinazionali che tengono in parcheggio svariate centinaia di miliardi di dollari che lui ha promesso farà tornare in patria, così come ha promesso che cancellerà l'Obamacare  e farà una riforma delle tasse che, in buona sostanza, è riservata ai Super ricchi.

D'altra parte, l'onda lunga della tempesta perfetta si è vista anche sugli effetti positivi degli otto anni di amministrazione Obama che ha trovato il tasso di disoccupazione ad oltre il 12 per cento e lo ha portato al 4,9 anche se il problema è fatto dalla diversa qualità dei osti di lavoro precedenti al 2007, normalmente stabile ben retribuiti, e quelli di questi ultimi anni, precari e spesso retribuiti al salario minimo.

L'euro Armageddon o la disfida di burletta?


La vita si ripete e, come si dice, una volta lo fa in tragedia, la seconda in farsa e così per la disfida apparentemente all'ultimo sangue tra Junker e Renzi, uno scontro che pare più un gioco delle parti per favorire il Governo italiano alle prese con la marea montante del populismo con il suo esercito di "leoni della tastiera" e dei tanti "commissari tecnici della nazionale di calcio" che non mancano mai nel nostro paese ed è per questo che ripubblico volentieri, dopo le bordate di lunedì a palle incatenate tra il Presidente della Commissione europea e il nostro Premier, questa puntata sull'argomento di qualche settimana fa senza toccare neppure una virgola, mentre ricordo incidentalmente che è scaduto da qualche giorno il termine entro il quale la Commissione poteva respingere al mittente il testo della manovra e nulla è accaduto!

* * *

Quando il Commissario europeo agli Affari Economici, Moscovici il solitamente severo tranne che nei confronti dei conti del suo paese di origine, competente per statuto a dare le pagelle ai paesi membri dell'Unione e a vidimarne le leggi di bilancio, si era espresso, in modo molto irrituale in favore dell'approvazione della legge di bilancio italiana (anche per contrastare il fenomeno oramai dilagante del populismo) in margine dei lavori del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale  svoltisi qualche settimana fa e in quel di Washington, due persone almeno sono rimaste deluse.

Mentre l'individuazione del primo non desta problemi, in quanto si tratta dell'arcigno ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schauble, che vedeva ancora una volta, e senza battaglia, trionfare le ciarliere e piagnone cicale italiane popolanti un Paese che aveva osato mettere in discussione la libertà e la liceità della Germania di fregarsene da sempre del vincolo posto dalle norme europee, quelle stesse per le quali lui e la sua cancelliera invocano l'assoluta sacralità e l'inviolabilità, quando le stesse riguardano l'avanzo commerciale che non dovrebbe superare, per tre anni consecutivi, il 6 per cento del prodotto interno lordo, mentre da sei anni la Germania ha bellamente sfondato questa soglia e, nel 2015, ultimo dato disponibile, si è avvicinata al 9 per cento, senza che da Bruxelles venisse un fiato e, non fosse stato per quel ragazzino indisciplinato del Premier italiano,  nessuno ne avrebbe parlato!

E il problema per il potente uomo politico tedesco era rappresentato dal fatto che un altro italiano, assist da qualche anno sullo scranno più elevato di quella Banca Centrale Europea, l'uomo regnante il quale si era completato quel processo che aveva ridotto l'un tempo potentissima Bundesbank al rango di Cenerentola, costretta a vigilare sulle landesbanken e sulle sparkassen, banche di poca importanza rispetto ai colossi Commerz e, soprattuto Deutsche, ebbene quel sosia di Ives Montand in sedicesimo si era permesso e di fronte al Parlamento tedesco riunito in sessione plenaria di dire che il tanto vituperato programma di Quantitative Easing aveva permesso, nel solo 2015, risparmi per ben 28 miliardi di euro e, lasciando intendere che cospicui risparmi erano stati conseguiti anche nei primi anni di applicazione del programma, mentre, per quel 2016 che aveva registrato un crollo degli yield sui Bund, le cose sarebbero davvero andate alla grande.

Quando dico Schauble, ricoprendo nel suo nome le posizioni dell'Olanda (che pure da un po' di tempo a questa parte ha i suoi di problemi), l'Austria, i Paesi del Nord europa e di quelli che non troppo tempo fa definiti satelliti dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, paesi del tutto allergici ai migranti che pure, in base al piano di ripartizione faticosamente individuato a Bruxelles, dovrebbero accogliere, tutti infuriati con il davvero inedito buonismo mostrato dal Commissario francese, un uomo che sino a quel momento era proprio nelle loro corde.

Ma la vera sorpresa  sta nell'individuazione dell'altro scontento da questo inedito approccio mieloso di Moscovici, anche perché, almeno sulla carta, ne sarebbe il maggiore beneficiario e, cioè il Presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, che di tutto ha bisogno in questo momento meno che di un'approvazione sul velluto della manovra per il 2017; confesso che per capire che le cose stavano così ho dovuto fare appello alle mie frequentazioni negli anni Ottanta della sala stampa di Palazzo Chigi, aulico luogo nel quale colleghi esperti mi spiegavano che erano non pochi i Premier italiani pentapartitici che chiedevano segretamente all'Europa, allora si diceva così, di bacchettarli al fine di far passare misure che loro stessi e i loro consiglieri avevano escogitato.

D'altro canto, un Presidente del Consiglio di nomina molto più recente è stato debitore all'Europa e allo Spread, che poi in estrema sintesi è la stessa cosa, oltre che all'attivismo degno di miglior causa dell'allora Capo dello Stato, della sua investitura alla guida di un Governo che non pochi danni ha fatto per qualcosa di meno di un biennio, ma che a lui ha lasciato la carica di Senatore a vita che è stata un po' la sua assicurazione sulla vita!

Ecco dunque che la Commissione e il suo Capo, Junker, diventano improvvisamente intransigenti, mentre il Premier italiano, dopo l'arma del surplus commerciale tedesco non sanzionato, impugna quella dei deficit altrettanto non sanzionati di Francia, Spagna, Portogallo e compagnia cantante, e cerca di imitare i Premier britannici che negoziavano fermamente la tassa di iscrizione annuale alla UE, nel nostro caso 20 miliardi, e tutto questo per una contestazione di uno 0,1 per cento nel rapporto tra deficit e PIL.

Insomma, ho l'impressione, condivisa da qualche osservatore più smaliziato di me, che tutta questa guerra sul nulla sia fatta esclusivamente per motivi di politica interna del nostro Paese e che mostrare, a quaranta giorni dal voto referendario, i muscoli con e nell'ambito dell'Europa potrebbe essere una mossa alquanto astuta e tutto si può pensare del giovane Premier italiano meno che sia un ingenuo o uno sprovveduto. E, come nota Fabio Martina su La Stampa di ieri, l'Italia farà come quei pugili che si avvinghiano l'uno all'altro senza colpirsi, il che significa che si entrerà in uno scambio di deduzioni e controdeduzioni che porterà i contendenti a giungere entrambi indenni alla Primavera del 2017.


sabato 5 novembre 2016

Sospensione della serie "L'amara lezione della Tempesta Perfetta"

Come ho annunciato in coda ad una delle ultime puntate del Diario della crisi finanziaria, ho deciso di rinviare nel tempo la pubblicazione delle puntate de "L'amara lezione della Tempesta Perfetta" dopo aver postato le prime due parti nelle settimane scorse con buon successo di visite, in quanto  ho deciso di farne un volumetto per il quale sono alla ricerca di un editore volenteroso, cosa che non ha mai cercato di fare con il Diario che, ad oggi, richiederebbe la realizzazione di oltre dieci volumi di grandi dimensioni.

La serie che interrompo rappresenta una chiave di lettura delle varie fasi della Tempesta perfetta e che chiarisce sia le premesse teoriche dell'approccio da me seguito, sia i riferimenti alle tre persone, delle quali, seppur alquanto anziane, due ancora in vita, che sono state per me fari e stella polare per orientarmi nel redigere il libro di bordo della flotta delle entità finanziarie di ogni ordine e grado alle prese con gli alti marosi della più grave crisi finanziaria mai avvenuta dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Le tre persone sono, in ordine di apparizione, John Maynard Keynes, prematuramente scomparso, poco tempo dopo essere stato nominato Lord Tilton, mentre era addormentato sotto una quercia posta nel giardino di una sua abitazione, una dolce morte per un uomo giusto e lontano da compromessi, George Soros, corsaro sui mercati finanziari, in particolare su quelli valutari e uomo che ha compreso sin da giovane come nella finanza regnino sovrani tre sentimenti: la stupidità, l'avidità e la paura; e, the last but non the least, Warren Buffett, anche noto come l'indiscusso e inimitabile Leone di Omaha, una persona che ha reso milionari, a volte a fronte di piccoli investimenti, decine di migliaia di donne e di uomini che si sono fidati delle sue capacità, della sua saggezza e della sua proverbiale prudenza che è, tuttavia, tutt'uno con la sua ferrea determinazione.

Pregandovi di comprendere questa mia decisione, vi garantisco di tenervi aggiornati sugli sviluppi di questa nuova e stimolante avventura editoriale.

venerdì 4 novembre 2016

Una piccola, grande donna d'acciaio sconfigge la Lady di latta!


Ho già parlato, dalle colonne del Diario della crisi finanziaria, della lotta solitaria che una donna d'affari britannica d'adozione ma straniera di nascita ha condotto contro lo strapotere del nuovo  Governo di Sua Maestà, un esecutivo guidato da una donna che aveva promesso alquanto per finta di sostenere il Remain al voto referendario del 23 giugno di questo anno di disgrazia 2016, quella Theresa May che della Cancelliera di ferro tedesca ha solo l'incarico di primo ministro e non certo le qualità intrinseche e la determinazione e che pensava davvero di trasformare un voto consultivo, peraltro non a larga maggioranza (52 a 48 per cento per la precisione) in un diktat inappellabile, decidendo in perfetta solitudine di non far pronunciare sullo stesso le due Camere con sede a Londra, la Camera dei Comuni e quella dei Lord (quest'ultima  a maggioranza contraria all'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea) e che ora è costretta a fare appello contro la sentenza dell'Alta Corte di giustizia di Londra che ha dato ragione a Gina Miller che quel passaggio parlamentare aveva chiesto a gran voce e che ora, in punta di diritto, ha visto le sue ragioni prevalere alquanto clamorosamente e, a mio modesto avviso, alquanto definitivamente.

Ma Gina Miller non è nuova a grandi battaglie inerenti alle sue avventure professionali e umanitarie, infatti, dopo aver fondato un importante fondo d'investimento insieme con il marito e averlo portato ad una grande affermazione nel suo settore, gira improvvisamente le sue posizioni e comincia una battaglia da novella Jean D'Arc contro le manipolazioni esistenti in questo comparto di attività dove i sottoscrittori perdono ben presto il controllo del denaro che hanno affidato a gestori a volte degni solo di essere trascinati in una corte di giustizia inglese, di fronte a giudici inquirenti e deliberanti che passano per essere tra i più severi del pianeta in materia di veri o presunti reati finanziari, malefatte e reati che le altissime ondate delle tre fasi della Tempesta Perfetta hanno portato in gran numero allo scoperto.

Ed è così che la bella Gina, sino a quel momento molto introdotta nei salotti bene, o più che bene, londinesi rischia seriamente di diventare un'appestata, una che ha squarciato il velo di omertà e di poca trasparenza che riguarda un'attività nella quale persone di ogni ordine e rango, di specchiata onestà o veri e propri malfattori, preparatissimi o ignoranti di tre cotte, insomma un milieu di persone che vivono investendo bene o male, spesso molto male, i soldi di quanti non seguono la lezione del mai troppo compianto Lord Tilton, al secolo John Maynard Keynes.

Quello che è stato forse il più grande economista britannico soleva, infatti, dire che in periodi di crisi e quando all'orizzonte vi è tanta o tantissima incertezza le persone normali dovrebbero far prevalere quella che in gergo viene definita propensione per la liquidità, ossia la sana abitudine di non staccarsi dal proprio denaro di una distanza che da sola impedisce azzardi nei mercati azionari o obbligazionari, così come il versare il proprio denaro in entità finanziarie dai contorni non troppo distinti, diceva anzi che in questi momenti è il caso di accarezzare il proprio denaro, quindi, come ho detto nelle poche occasioni  pubbliche in cui ho parlato della crisi finanziarie, il miglior investimento nella Tempesta perfetta è l'investimento che non si è fatto, anche perché la propensione per la liquidità è premiale in un periodo in cui l'inflazione è bassissima se non, addirittura e come è stato in questo ultimo decennio, ci si trova di fronte ad uno scenario chiaramente deflattivo come non si era visto dagli anni della Grande Depressione.

Ma, lasciati ad altri le cure del piccolo impero finanziario da lei stessa costruito,  Gina si dedica con passione alle attività filantropiche cui dedica la stessa passione e lo stesso entusiasmo dedicato al fare soldi in attività filantropiche, attività nelle quali ottiene successi e riconoscimenti, ma anche qui scopre che c'è del marcio in Danimarca e dà vita a costose battaglie legali volte a dimostrare che le maggiori iniziative filantropiche del suo Paese, ma io direi di tutto il mondo, sono dedite ad ingrassare le strutture delle varie entità o fondazioni, riservando ai beneficiari di queste attività le briciole.

Per capire l'importanza del più recente successo della Miller, basti pensare che la sterlina ha recuperato oltre l'uno per cento in una sola seduta, anche se la decisione della May di interporre appello contro la decisione dell'Alta Corte ha frenato, almeno in parte, l'apprezzamento della valuta britannica.

giovedì 3 novembre 2016

Ritirata rovinosa di Corrado Passera da MPS

Nel giorno in cui la chiesa cattolica suole festeggiare tutti i Santi, sia quelli presenti, a volte in gruppo, nelle giornate di calendario, sia quelli che spazio proprio non lo hanno trovato, l'ex Chief Executive Officer di Intesa-San Paolo (quest'ultimo lo si festeggia il 29 giugno insieme all'amico-rivale Pietro), ex top manager di Mc Kinsey ed ex ministro della Repubblica italiana nel poco tecnico e molto politico gabinetto dell'allora neo senatore a vita Mario Monti, insomma Corrado Passera ha sbattuto clamorosamente la porta in faccia ad un poco sorpreso Marco Morelli, attuale CEO di Montepaschi, di cui era stato direttore finanziario, ma anche ex dipendente di J.P. Morgan-Chase ed ex numero uno esecutivo di Bank of America-Merrill Linch Italia, due uomini che, invece di normali biglietti da visita, presentano ai loro altolocati interlocutori un lenzuolo in grado di contenere il loro curriculum vitae.

Non ho dimenticato i trascorsi da top manager di Corrado Pasera nella Olivetti di proprietà non più del suo mitico fondatore Adriano, ma poi finite nelle grinfie del capitano d'industria, Carlo De Benedetti e del fratello di questi, Franco, che però di cognome fa Debenedetti, cognome originario della facoltosa famiglia che riparò in Svizzera ai tempi delle persecuzioni naziste contro le persone di religione ebraica, entrambi condannati in primo grado a pene pesantissime per la vicenda dell'amianto, processo nel quale Corrado è stato, ne sono felice per lui, assolto, anche perché, pur essendo direttore generale, veniva tenuto all'oscuro delle questioni più importanti fai due potenti fratelli. Con grande lungimiranza, Carlo ha preso da almeno dieci anni la cittadinanza svizzera e continua, dal ponte di comando del suo grande gruppo editoriale a duellare con il nemico di sempre, Silvio Berlusconi di cui ha sottolineato le tante disavventure giudiziarie, finendo per subire una condanna ampiamente superiore a quella che ha portato si servizi sociali e alla decadenza dal Senato del suo acerrimo rivale.

Così come non ho dimenticato il suo ruolo nella tragicomica vicenda della tecnicamente strafallita Alitalia, compagnia di bandiera del nostro Paese, che, regnante Prodi, riceve un'offerta di acquisto della Air France-KLM cui è già legata da accordi commerciali, un'offerta condizionata ad un rigoroso piano di risanamento e che, dopo un lungo negoziato (si veda la puntata del Diario della crisi dal titolo "Quel che è meglio per l'Alitalia, quel che è meglio per l'Italia") venne accettato da tutte e nove le sigle sindacali presenti in Alitalia.

Ma, come tutti o quasi ricorderanno, a giochi oramai conclusi, intervenne a gamba tesa Silvio Berlusconi che affida il compito di formare una cordata alternativa proprio a Corrado Passera che accetta l'incarico, rendendo così endemico il mal di testa del Prof. Bazoli suo presidente e ormai separato in casa, e forma la cordata dei "capitani coraggiosi" (sic) che con grande ardimento, con l'appoggio del nuovo Governo Berlusconi, delle banche, della stampa (ignoro la posizione del vaticano, ma non penso che il Papa dell'epoca fosse contrario) degli assegni staccati a piè di lista da Pantalone, si lanciarono, capitanati da Colaninno Senior, in questa nuova avventura finita ignominiosamente qualche anno più tardi con la svendita ad Ethiad, compagnia araba che ha ha avuto la possibilità di fare un'altra potatura dei costi aziendali, personale di terra e di volo ovviamente inclusi.

Mi scuso per la lunga digressione (un amico mi diceva che sono spesso più lunghe dello spazio dedicato alla headline della puntata e ha, ovviamente ragione), ma seria inquadrare il personaggio che, a fine luglio e mentre Fabrizio Viola suda le proverbiali sette camicie per realizzare un maxi aumento di capitale da 5 miliardi e pulire il bilancio della banca senese una volta per tutte e in un colpo solo da 27 e rotti miliardi di euro di sofferenze lorde (divenute ora quasi 29 miliardi), si presenta a Rocca Salimbeni con quattro paginette quattro nelle quali, a suo dire, è contenuta la formula magica per risolvere tutte le ambasce del Monte dei Paschi di Siena.

Viola è davvero indaffarato e poi non passa per essere un diplomatico e si decide che a ricevere l'augusto personaggio auto invitatosi provvederà il presidente, Massimo Tononi, che, anche per il suo passato (e credo futuro) nella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, prende in carico l'opera di ingegno di Corrado e promette di esaminarla con la dovuta attenzione, impegnandosi anche a sottoporla al Consiglio di Amministrazione, lo steso cui Viola presenterà il suo piano "o la va o la spacca", CdA che, ovviamente non ha tempo da perdere con le trovate di Passera e che si accontenta di quattro parole quattro pronunciate da Tononi che si è sobbarcato l'immane fati di leggere il "lungo" Executive Summary di CP.

Passata l'estate e consumato, con la sapiente regia di Jamie Dimon potente CEO di J.P. Morgan-Chase, il sanguinoso cambio della guardia a Rocca Salimbeni, a maneggiare la patata bollente del piano di Passera ci penserà il nuovo CEO, Marco Morelli che, presentando il 24 ottobre il suo piano industriale dirà che tutti gli investitoti di peso, inclusi quelli cui parla Passera, avranno accesso alla data room che sarà allestita al più presto, ma è qui che Corrado perde la pazienza e lascia la partita sbattendo la porta che, trattandosi di una rocca medievale è piuttosto un portone.

Il problema, come sottolinea con forza Morelli è rappresentato dal fatto che, pur sollecitato, Corrado si rifiuta di svelare l'identità degli investitori istituzionali interessati a partecipare per ben due miliardi di euro all'aumento di capitale di Montepaschi, condizione posta dalla banca senese per concedere l'accesso ad una data room che assomiglia sempre di più ad una due diligente, ma questa è solo una parte e non la più importante della storia, perché, dopo aver fatto trapelare l'intenzione di garantire in tutto o in larga parte l'aumento di capitale di MPS, il successore di Passera alla carica di CEO di Intesa-San Paolo, Carlo Messina, rischia di trasformarsi nella testa di ariete di una operazione concertata tra la prima banca italiana e la potentissima Cassa Depositi e Prestiti che potrebbe porte anche ad una fusione per incorporazione della banca senese in quella con sede in Milano, il tutto con la benedizione entusiastica del Governo e grazie all'appoggio più o meno convinto della già menzionata CDP.

Non si ha il curriculum lenzuolare di Corrado Passeraa se non si ha la capacità di capire quando è l'ora di attaccare e quando è, invece, quella di battere in ritirata accusando sempre l'altro della propria decisione, ed è esattamente quello che il Signor ex tutto ha deciso di fare ieri, ma quello che mi chiedo è il motivo del suo timore sacro a confrontarsi con l'avvocato più noto di Brescia e cioè Giovanni Bazoli!

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Sono spiacente di informare i lettori del Diario della crisi finanziaria che le prossime puntate sulle basi teoriche e motivazionali della nascita di questo blog e apparse a cadenza settimanale con il titolo "L'amara lezione della Tempesta Perfetta" sono sospese, in quanto è in preparazione un mio libro sullo stesso argomento. Ringrazio comunque le centinaia di visitatori del blog che hanno visitato le prime due puntate che restano ovviamente consultabili nel sito.


mercoledì 2 novembre 2016

Cosa significa che una banca è la maggior fonte di rischi sistemici al mondo?


Un brivido è corso lungo le schiene dei vertici delle banche più o meno globali con sede posta al di qua e al di là dell'Oceano Atlantico, ma non è che quelle asiatiche e quelle arabe siano rimaste indifferenti, quando prima il numero uno esecutivo del Fondo Monetario Internazionale e poi, con una certa dose di perfidia giustificata dalle assurde accuse dei politici tedeschi di ogni parte e colore al suo Quantitative Easing, il Presidente della BCE, Super Mario, al secolo Mario Draghi, hanno parlato di rischio sistemico riferito alla banca tedesca ma molto globale conosciuta dai più come il colosso creditizio dai piedi di argilla Deutsche Bank, un istituto di credito che, in  soli quattro o cinque anni (dal 2002 al 2007), da tradizionale e solida, molto solida, banca europea a vocazione prevalentemente commerciale, venne trasformata nella più grande Investment Bank a livello planetario dal suo nuovo presidente e Chief Executive Officer, Josip Ackermann, un uomo che lasciò molto "spintaneamente" la banca, lasciata nelle mani di due suoi fedelissimi, uno dei quali di origine indiana e fino a poche ore prima a capo di una delle due Divisioni di Corporate and Investment Banking (sic) di cui si è dotata in quegli anni folli della finanza strutturata la banca con sede a Francoforte a poca distanza dal grattacielo che ospita la BCE.

E' bastata questa breve frase ma pronunciata da una donna che, oltre ad essere stata una potentissima ministra delle finanze di uno dei tanti Governi francesi , ha occupato un seggio nel Board di una delle poche banche globali francesi,  per non parlare di come si devono essere drizzate le orecchie dei decision makers di fondi  pensione, di investimento, ma, e direi soprattutto degli Hedge Funds, di fronte alle parole dell'uomo che, quando era Governatore della Banca d'Italia, ebbe il compito di guidare un organismo istituito dai suoi colleghi di tutto il mondo chiamato a riscrivere le regole cui si doveva attenere nel futuro il variegato e alquanto variopinto mondo della finanza più o meno strutturata ed elaborò anche un corposo rapporto sui comportamenti che avevano dato luogo alla Tempesta Perfetta, un corposo dossier che è stato utilissimo alle donne e agli uomini del Dipartimento di giustizia USA che ha comminato, per ora, oltre 100 miliardi di dollari di sanzioni a banche globali, altre istituzioni finanziarie, all'agenzia di racing Moody's, mentre Standard and Poor's è in trepida attesa per il prossimo verdetto.

Ma un esempio di banca che con il suo default aveva determinato da sola l'innescarsi del rischio sistemico c'era allora appena stato, quando nel settembre del 2008, la Federal Reserve, il Segretario al Tesoro e altri aventi causa avevano deciso che la Investment Bank Lehman Brothers, allora guidata dal poco meno che vulcanico Jack Fludd, nonostante la sua liquidity pool dalla capienza di oltre 200 miliardi di dollari, doveva chiudere per sempre i battenti, il tutto mentre le grandi banche globali, depositarie proprio di quei fondi di emergenza, ne negarono l'utilizzo e per questo sono state successivamente condannate su istanza dei liquidatori della banca; e ricorderete che più di una banca italiana si offrì di acquisire tutto quello che era targato Lehman dalle mani dei propri disperati clienti, temendo una crisi di fiducia da parte dei loro correntisti presenti (e futuri), crisi che rischiava di essere esiziale venendo poco dopo le gravi ripercussioni sui risparmiatori italiani del default del debito sovrano dell'Argentina.

D'altra parte, se andiamo a vedere l'effetto leva di Deutsche, considerando sia il totale attivo che la mostruosa massa di derivati e titoli più o meno tossici, sarà facile vedere che è molto più elevato di quello che caratterizzava la banca fondata dai  fratelli Lehman tanto ma tanto tempo fa quando andò letteralmente a carte quarantotto, e il tutto quando la banca di Francoforte dispone di un patrimonio che non arriva a quaranta miliardi di euro, un patrimonio che è forse adeguato per far fronte ai suoi impegni con la clientela, ma una vera e propria goccia nel mare dei suoi 52 mila miliardi di nozionale dei derivati e della concreta realtà dei suoi titoli più o meno tossici e pensate che credo proprio che la banca tedesca non abbia, nel fare ciò, violato nessuna normativa di vigilanza né della Bundesbank, né, a partire dal giugno 2014, della vigilanza BCE!

Ebbene, se c'è una cosa che non difetta a proprietari e gestori degli Hedge Funds è la velocità e ,nelle settimane scorse, dieci di loro hanno chiesto indietro i loro miliardi di dollari depositati presso Deutsche e per loro il bambino di Mary Poppins che chiede al banchiere indietro i suoi due pence era rappresentato dal duo Lagarde-Draghi ed essendo i primi hanno messo in salvo i loro "sudati risparmi"; sì, ma per depositarli dove? In quanto, con tutte le loro informazioni e aderenze non sanno proprio come sono messi i depositi e i finanziamenti del colosso creditizio dai piedi di argilla con base a Francoforte nei confronti di quelle che once upon a time erano chiamate da ogni banca le proprie corrispondenti nazionali o estere.

Già, perché il rischio sistemico è dato dai saldi delle posizioni attive e passive di una banca con le sue consorelle, ma dall'agosto del 2007 questo rischio, con il blocco totale del mercato interbancario a livello globale, vede le banche utilizzare la rispettiva banca centrale, nel caso di Deutsche, BCE, ma anche Federal Reserve, Bank of England e, in misura più limitata, altre banche centrali di altre parti del mondo in cui opera, anche se il nuovo CEO, John Cryan, ha già tagliato l'operatività in almeno dieci Paesi; ciò nonostante, la residua attività interbancaria di Deutsche è ancora presumibilmente a livelli di tutto rispetto. 

Questi sono alcuni dei motivi che spiegano le mani forti sulla banca tedesca che ne hanno risollevato l'azione dai recenti minimi portando il livello di quasi un terzo e spiegano anche perché sia così forte e variegato il fronte di quanti sostengono che tutto deve accadere, meno un default del colosso creditizio tedesco e, ahimé, ancora molto globale!